PROGRAMMA DELLE DUE GIORNATE

 

 


Prima giornata

sala audiovisivi

 

*   Introduzione sul tema e sul progetto

*   Zamjatin, Huxley, Orwell e l’utopia capovolta (lettura di brevi passi scelti dalle opere, dibattito)

 

(Pausa)

 

*   Percorso ragionato attraverso la riduzione cinematografica dell’opera “1984” di George Orwell)

 

(Pausa)

 

*   Un viaggio attraverso sogni e incubi del cinema d’anticipazione (visione di sequenze di film con commento e discussione)

*   Consegne per la giornata successiva

 

 

Seconda giornata

 

Prima parte ® sala computer

 

*   Ripresa dei temi e degli spunti emersi nella giornata precedente

*   Ricerca in internet (individuale o a piccoli gruppi)

 

Contenuto delle ricerche:

 

*   Siti internet sul cinema in generale e sul cinema di fantascienza (con particolare riferimento ai temi trattati) – Catalogazione dei siti con piccola descrizione degli stessi

*   Siti internet sulla letteratura utopistica – Bibliografia essenziale con distinzione tra autori e critica

*   Biografie degli autori trattati (sia scrittori che registi) e materiali fotografici a loro inerenti.

*   Recensioni dei film presi in considerazione nel lavoro (in italiano e in inglese)

*   Immagini tratte dal cinema di fantascienza o ad esso inerenti

*   L’alieno (tipologie ed evoluzione di questo immaginario)

*   La macchina e l’uomo nel cinema e nella letteratura d’anticipazione (testi e immagini)

*   La città nella letteratura e nel cinema d’anticipazione (testi e immagini)

*   La manipolazione dell’informazione

*   La manipolazione dell’uomo (sia sociale che biologica)

 

(per tutte queste voci è prevista la realizzazione di un file che raccolga ordinatamente i materiali reperiti)

 

 

Seconda parte ® Sala audiovisivi o aula magna

 

*   Visione integrale di un film e dibattito

*   Verifiche sul lavoro svolto

 




Paola Gatti

Abbiamo ancora bisogno di utopie?

Accanto al genere filosofico dell'utopia, la descrizione della società felice e perfetta, nel nostro secolo è nato il genere letterario della distopia, nel quale viene presentata, non più nel sogno ma nell'incubo, la società peggiore possibile. Dall'osservazione che le distopie riproducono molti tratti delle utopie si è voluto spesso concludere che esse vanno considerate quasi uno smascheramento della loro implicita perversità. Ma il rapporto è più complesso: se l'utopia descrive una società senza nessuna connessione spazio-temporale con quella reale e totalmente fondata sulla razionalità, la distopia muove dalle tendenze esistenti e le esamina nelle loro ultime conseguenze. In entrambi i casi, tuttavia, si tratta di invitare alla progettazione di un mondo migliore.

Le distopie del nostro secolo, hanno una comune origine nella leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij. In essa viene sostenuta l'antinomia tra libertà e felicità: la prima diventa inevitabilmente per l'uomo un peso insopportabile, e solo un potere assoluto e autoritario è in grado di portare gli uomini alla felicità. Tale tema viene ripreso in forme diverse dai tre romanzi distopici Noi, Il Mondo Nuovo e 1984. Il primo sottolinea la perdita della nozione di individualità come condizione della felicità; il secondo presenta un totalitarismo fondato sul controllo tecnologico e sulla cancellazione dei processi naturali di riproduzione; il terzo infine costituisce una sorta di fenomenologia del potere, in cui la teoria della leggenda del Santo Inquisitore viene scardinata nell'affermazione di una crudeltà totalmente fine a sé stessa.

 

 

 

 

NOI

 

Nel 1922 Evgenij Zamjatin, ingegnere e scrittore russo, compone la prima antiutopia del nostro secolo: Noi. Il romanzo si sviluppa in una serie di note in cui il protagonista, D-503, registra puntualmente ciò che gli accade: viene così descritto lo Stato Unico, con a capo il Benefattore, che nel 29° secolo riunisce sotto di sé l'intera umanità. Noi è una spietata denuncia non solo del regime sovietico instaurato da Stalin che ha tradito gli ideali della rivoluzione russa, ma rappresenta un atto di accusa contro ogni totalitarismo e contro la crescente meccanizzazione dell'uomo operata dallo sviluppo scientifico e tecnologico.

Il titolo adottato da Zamjatin è di per sé programmatico: My, cioè Noi; il numero D-503, che è uno dei matematici dello Stato Unico e Primo costruttore dell'Integrale, la nave interplanetaria che deve imporre agli altri pianeti il giogo dello Stato Unico, si mette a scrivere per raccontare agli ignoti abitanti di altri pianeti tutto quello che vede e pensa, più precisamente di ciò che noi pensiamo (“Tutti ed io - scrive Zamjatin - siamo l'unico Noi”). I cittadini dello Stato unico hanno perso perciò ogni nozione della propria individualità. C'è l'auspicio che la scienza nel suo progresso riesca ad eliminare anche le varie diversità fisiche affinché ognuno possa essere uguale ad ogni altro. Essi non hanno nome, ma sono solo dei numeri: la coscienza della propria individualità viene vissuta come una malattia da estirpare, perché gli uomini valgono soltanto in quanto meccanismi di un unico e grande ingranaggio, lo Stato mondiale.

Siamo quindi di fronte ad un enorme Leviatano, un'unica grande macchina che per funzionare richiede che ogni suo elemento sia sottoposto a regole stabilite e rigide. La danza con il suo essere codificata in ritmi e movimenti prestabiliti è elevata a metafora del nuovo ordine mondiale: “Perché la danza è bella? Risposta: perché è un movimento non libero, perché il senso profondo della danza è appunto nell'assoluta dipendenza estetica ad una costrizione ideale”.

Siamo di fronte ad un totalitarismo assoluto che fagocita i singoli individui, vantando però la pretesa di aver fatto tutto ciò in nome dell'amore dell'umanità.

 

 

 

 

 

IL MONDO NUOVO

 

Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley, composto nel 1932, si situa nell'anno 632 di Nostro Ford, un'epoca caratterizzata dal trionfo del progresso scientifico e tecnologico che ha prodotto il più stabile equilibrio della storia, ossia la formazione dello Stato Mondiale il cui motto “Comunità, Identità, Stabilità” fornisce la garanzia della felicità collettiva. Il progresso tecnologico dispiega interamente la sua efficacia a servizio dell'ordine del mondo nuovo applicandosi ai sistemi che regolano la riproduzione umana, la quale perde così ogni carattere naturale per essere gestita direttamente dall'autorità statale. Viene vietato assolutamente alle donne di generare figli e l'individuo inizia la propria vita in laboratorio. La famiglia che ormai appartiene solo ad un lontanissimo passato viene indicata come fonte di ogni male. La società richiede organizzazione: per il suo perfetto funzionamento ogni elemento della collettività deve svolgere i compiti ai quali è preposto; la predestinazione biologica si rivela così il mezzo adeguato per realizzare tale finalità, perché determina geneticamente, attraverso trattamenti diversificati, la divisione degli individui in caste gerarchiche: Alfa, Beta, Gamma, Delta, Epsilon, le cui caratteristiche psicofisiche sono programmate in funzione del ruolo che dovranno svolgere nella società.

A completare la predestinazione sociale dell'individuo intervengono ulteriori tecniche quali l'ipnopedia e i metodi di condizionamento neo-pavloviani. Attraverso l'ipnopedia, ossia l'insegnamento durante il sonno, vengono impartiti suggerimenti a carattere morale e sociale che conducono il fanciullo ad amare solo quei compiti che è chiamato a svolgere nella comunità. I metodi di condizionamento neo-pavloviani consistono nell'indurre nell'individuo non soltanto la condotta desiderata, ma persino gusti e desideri che dovrebbero essere caratteristici della spontaneità umana, come si verifica nel caso dei bambini delta, sottoposti a scosse elettriche ogniqualvolta tentino di raggiungere dei fiori, al fine di suscitare in essi, inconsciamente, odio verso tutto ciò che appartiene al mondo naturale; la motivazione di ciò risiede nella constatazione che la fruizione della natura è gratuita e quindi inutile allo sviluppo economico fondato sul consumo di beni materiali

Lo scenario rappresentato nel romanzo di Huxley risulta così caratterizzato dal più integrale totalitarismo: non soltanto viene negata agli individui la capacità di interagire autonomamente con il mondo esterno, ma persino la possibilità di sentirsi liberi internamente, perché ormai ognuno appartiene a tutti gli altri, principio fondamentale nel Mondo Nuovo.

 

 

 

 

1984

 

Quella crudeltà a cui Il Mondo Nuovo non aveva fatto ricorso, perché la libertà contro cui essa avrebbe dovuto dirigersi era stata geneticamente sconfitta, si impone ferocemente in 1984. Quando Orwell scrive il suo libro, ottenendo il titolo invertendo le ultime due cifre dell'anno di composizione 1948, egli ha ormai ben presente gli orrori del nazismo, del fascismo, del comunismo russo, perciò la sua opera non è tanto una profezia del futuro quanto una trasfigurazione della realtà.

Orwell si appropria delle concezioni di Dostoevskij, Zamjatin e Huxley riguardanti la natura del potere, inteso come strumento necessario per garantire la felicità umana attraverso l'abolizione della libertà, e le fa esplodere dall'interno: la vera natura del potere è il potere, l'unica finalità della classe dominante è l'esercizio assoluto del potere.

Il mondo in 1984 è diviso in tre grandi aree politiche: l'Oceania, in cui si svolgono le vicende del romanzo, l'Eurasia e l'Estasia, perennemente in guerra fra loro, attraverso continui cambi di alleanze. La filosofia imperante in Oceania è il Socing, in Eurasia è il neo-bolscevismo e in Estasia il Culto della Morte. In realtà le tre filosofie e i rispettivi sistemi sociali non si distinguono affatto tra loro. La spiegazione di questo stato di guerra permanente si trova nel bisogno di mantenere la gente in una tensione emotiva costante. Unitamente a ciò vi è la necessità di distruggere continuamente i prodotti del lavoro umano per mantenere le masse nella miseria; la povertà soltanto è infatti in grado di garantire quella disuguaglianza sociale che lo sviluppo industriale e tecnologico avrebbe con il tempo gradualmente eliminato.

Il profondo senso di malessere e di precarietà diffuso tra la popolazione viene poi convogliato dal Partito in odio verso il nemico e nel culto della personalità del Grande Fratello, figura mitica attraverso il quale il Partito si relaziona all'esterno. Il nucleo familiare seppur non abolito è stato sciolto nei legami che lo tenevano unito: ognuno diventa il peggior nemico dell'altro, l'uomo contro la donna, i figli contro i genitori. La procreazione è diventata una pura formalità da adempiere per donare figli al Partito. Questi inoltre vengono fin da piccoli irrigimentati nella Lega giovanile delle Spie e incitati a denunciare qualunque atteggiamento sospetto manifestato dai genitori.

Attraverso teleschermi installati in ogni luogo abitato e sorvegliati dall'occhio vigile della psico-polizia, la polizia del pensiero, si è mantenuti costantemente sotto controllo: occorre quindi imparare a modulare ogni tono di voce, a camuffare ogni emozione, a calibrare ogni sguardo e movimento onde evitare il rischio di essere vaporizzati. Quasi mai si è uccisi per qualcosa che si è commesso, ma per quel che si sarebbe voluto commettere, lo “psicoreato” appunto. Obiettivi principali del Socing, Socialismo inglese, seppur mai apertamente dichiarati dal Partito, sono il controllo sul passato, il bispensiero e la neolingua. Assistiamo costantemente nel romanzo alla falsificazione della storia. La manipolazione e la cacellazione del passato fa sì che la popolazione più povera sopporti le condizioni presenti non potendo in alcun modo confrontarle con quelle di un'altra epoca, essendo stato distrutto tutto ciò che vi è appartenuto, documenti,  libri, arte e architettura. Il continuo aggiornamento del passato salvaguarda l'infallibilità del Partito, il quale non può mai mutare opinione o sbagliare nelle sue previsioni. Infatti la funzione che si richiede prima di ogni cosa ai membri del partito è il cosiddetto «controllo della realtà», in neolingua detto «bispensiero»: non solo occorre accettare prontamente quanto sostenuto dall'oligarchia, ma credervi realmente e ricordare che i fatti avvennero proprio in quella maniera: se il Partito lo desidera la somma di 2+2 è matematicamente 5: Bispensiero sta a significare la capacità di condividere simultaneamente due opinione palesemente contraddittorie e di accettarle entrambe.

La neolingua è la lingua ufficiale che in Oceania il Partito ha iniziato ad introdurre al posto dell'inglese, ed è frutto di un artificioso processo di semplificazione della lingua finalizzato alla cancellazione di parole indesiderabili e quindi dei modi di pensare corrispondenti.

Il potere ricercato dal Partito diventa quindi assoluto, non è tanto il potere sulle cose, è il potere sulla mente degli uomini, sulle sue intenzioni, sui suoi pensieri. Il fine non è di distruggere il nemico, ma di trasformarlo; prima di essere ucciso, il suo cervello, attraverso torture sempre più raffinate, viene fatto a pezzi e ricomposto alla maniera desiderata dal Partito. Viene quindi annullata anche l'unica e sola forma di protesta possibile che sembra prospettarsi a Winston Smith prima della morte -- Morire odiandoli, questa era la libertà -. Invece il romanzo si chiude su queste parole: Amava il Grande Fratello. Al termine della sua rieducazione terribile, Smith è stato definitivamente sconfitto.


EVGENIJ I. ZAMJATIN

Zamjatin
da Noi

(My) - 1924

 

 

 

NOTA PRIMA

Sommario: Un avviso. La linea più saggia. Un poema.

 

Trascrivo semplicemente ‑ parola per parola ‑ quel che è stato pubblicato oggi nel Giornale Statale:

“Tra 120 giorni sarà portata a termine la costruzione dell'Integrale.  è vicina la grande ora storica, in cui il primo Integrale  si lancerà nello spazio dei mondi. Mille anni or sono i vostri eroici antenati piegarono al potere dello Stato Unico tutta la sfera terrestre. Una gesta ancor più gloriosa vi attende: integrare la sconfinata equazione dell'universo per mezzo dell'Integrale elettrico di vetro, dal respiro di fuoco. Spetterà a voi di piegare al benefico giogo della ragione gli esseri ignoti che abitano sugli altri pianeti, forse ancora nello stato selvaggio della libertà. Se essi non comprenderanno che noi portiamo loro la felicità matematicamente esatta, è nostro dovere costringerli ad essere felici. Ma prima dell'arma noi sperimentiamo la parola.

“In nome del Benefattore si portano a conoscenza di tutti i numeri dello Stato Unico:

“Chiunque ne senta in sé la forza è tenuto a comporre trattati, poemi, manifesti, odi o altre opere sulla bellezza e grandezza dello Stato Unico.

“Sarà questo il primo carico che l'Integrale trasporterà.

“Evviva lo Stato Unico, evviva i numeri, evviva il Benefattore»

Scrivo ‑ sento: mi ardono le gote. Si: integrare la grandiosa equazione universale. Sì: raddrizzare la selvaggia curva, raddrizzarla secondo la tangente – asintote – seguendo la linea retta. Perché la linea dello Stato Unico è quella retta. La grande, divina, precisa saggia linea retta la più saggia delle linee...

Io, D‑503, costruttore dell'Integrale, io sono soltanto uno dei matematici dello Stato Unico. La mia penna, abituata alle cifre, non è capace di creare la musica delle assonanze e delle rime. Io cerco soltanto di prender nota di ciò che vedo, di ciò che penso ‑ piú precisamente di ciò che noi pensiamo (appunto: noi e che Noi sia il titolo delle mie note). Ma essendo appunto un prodotto della nostra vita, della vita matematicamente perfetta dello Stato Unico, non sarà, già per questa semplice ragione, opera di poesia? Si ‑ lo credo e lo so.

Scrivo ciò e sento: mi ardono le gote. Probabilmente ciò somiglia a quel che prova una donna quando per la prima volta sente in sé il polso di un nuovo uomo ‑ ancora minuscolo e cieco. Sono io e nello stesso tempo non sono io. Per lunghi mesi ancora dovrò nutrirlo col mio succo, col mio sangue e poi con dolore staccarlo da me e metterlo ai piedi dello Stato Unico.

Ma io sono pronto, come ognuno ‑ o quasi ognuno di noi. Sono pronto.

 

 

 

 

 


NOTA SECONDA

Sommario E balletto. L'armonia quadrata. L'X.

 

Primavera. Dall'al di là del Muro Verde, dalle selvagge pianure invisibili, il vento porta il polline giallo e melato di non so quali fiori. A causa di questo polline dolce le labbra si seccano – vi passi sopra la lingua ad ogni istante ‑ e probabilmente tutte le donne che si incontrano hanno le labbra dolci (e anche gli uomini naturalmente). Ciò disturba un po' il pensare logico.

Ma in compenso che cielo! Azzurro, non turbato da una sola nuvola (fino a che punto doveva essere selvaggio il gusto degli antichi, se i loro poeti potevano ispirarsi a questi disordinati, assurdi ammassi di vapore che si urtano l'un l'altro stupidamente). lo amo e sono sicuro di non sbagliarmi se dico: noi amiamo soltanto questo cielo sterile e irreprensibile. In simili giorni tutto il mondo sembra fuso dello stesso vetro eterno e impassibile del Muro Verde e di tutti i nostri edifici. In giorni come questi si vede la profondità azzurra delle cose e le loro stupefacenti equazioni, ignote fino ad ora – anche in ciò che vi è di più abituale, quotidiano.

Ecco un esempio. Questa mattina io mi trovavo sul cantiere dove si costruisce l'Integrale, e ad un tratto ho visto le macchine: con occhi chiusi, come in uno stato di oblio, giravano le sfere dei regolatori: i pistoni, luccicando oscillavano a destra e a sinistra; il bilanciere superbamente muoveva le spalle; e al ritmo di una musica inudibile strideva lo scalpello dei banco d'intaglio. E a un tratto io vidi tutta la bellezza di questo grandioso balletto di macchine, inondato da un leggero sole azzurro.

E piú avanti ho domandato a me stesso: perché è bello? Perché la danza è bella? Risposta: perché è un movimento non libero, perché il senso profondo della danza è appunto nell'assoluta dipendenza estetica ad una costrizione ideale.

 

 

 

 


NOTA TRENTADUESIMA

Sommario: Io non credo. I trattori. Una scheggia umana.

 

Credete o non credete che morirete? Sì, l'uomo è mortale, io sono un uomo: per conseguenza... No, non è questo. io so che voi lo sapete. Ma io domando: vi è mai successo di crederlo, di crederlo in modo definitivo, di crederlo non con l'intelletto, ma coi corpo, di sentire che le vostre dita, che adesso tengono questa pagina, saranno gialle, gelide?...

No: naturalmente non credete – e per questo finora non avete fatto un salto dal decimo piano sul selciato, per questo mangiate, voltate la pagina, vi rasate, sorridete, scrivete...

Proprio questo, sì, proprio questo succede a me, oggi. Io so che questa piccola lancetta nera dell'orologio scivolerà ecco fin qui, a mezzanotte e poi di nuovo si muoverà oltre, passerà non so quale ultimo limite e sopraggiungerà un domani inverosimile. Io questo lo so, eppure non credo, o forse mi pare che le ventiquattro ore siano ventiquattro anni. E per questo posso fare ancora qualcosa, affrettarmi per andare in qualche posto rispondere alle domande, arrampicarmi su per i pioli della scala dell'Integrale. Sento anche come esso ondeggia sull'acqua e comprendo che debbo afferrarmi ad una maniglia e sotto la mano sento il gelido vetro. Vedo come le gru vive e trasparenti, piegato il loro collo e allungato il becco, con cura e tenerezza danno da mangiare all'Integrale, il terribile alimento esplosivo dei propulsori. E giù sul fiume vedo chiaramente le vene e i nodi azzurri dell'acqua sollevati dal vento. Ma tutto ciò mi è lontano, estraneo, piatto, come un disegno su di un foglio di carta. E nemmeno a farlo apposta è il viso piatto come un disegno del Secondo Costruttore, il quale a un tratto dice:

“E così, quanto carburante per i propulsori? A calcolare tre ore, tre ore e mezzo...”

Davanti a me ‑ come in proiezione, sul disegno ‑ la mia mano col misuratore, la tabella dei logaritmi sulla quale leggo la cifra 15.

“Quindici tonnellate. Ma no, meglio... caricatene... si, cento...”

 

[ed. Feltinelli]


Orwell
Orwell
GEORGE ORWELL

da 1984

(Nineteen Eighty-Four) - 1949

 

Era una fresca limpida giornata d'aprile e gli orologi segnavano l'una. Winston Smith, col mento sprofondato nel bavero del cappotto per non esporlo al rigore dei vento, scivolò lento fra i battenti di vetro dell'ingresso agli Appartamenti della Vittoria, ma non tanto testo da impedire che una folata di polvere e sabbia entrasse con lui.

L'ingresso rimandava odore di cavoli bolliti e di vecchi tappeti sfilacciati. Nel fondo, un cartellone a colori, troppo grande per essere affisso all'interno, era stato inchiodato al muro. Rappresentava una faccia enorme più larga d'un metro: la faccia d'un uomo di circa quarantacinque anni, con grossi baffi neri e lineamenti rudi ma non sgradevoli. Winston s'avviò per le scale. Era inutile tentare l'ascensore Anche nei giorni buoni funzionava di rado, e nelle ore diurne la corrente elettrica era interrotta. Faceva parte dei progetto economico in preparazione della Settimana dell'Odio. L'appartamento era al settimo piano, e Winston, che aveva i suoi trentanove anni e un'ulcera varicosa sulla caviglia destra, saliva lentamente, fermandosi ogni tanto per riposare. A ciascun pianerottolo, proprio di fronte allo sportello dell'ascensore il cartellone con la faccia enorme riguardava dalla parete. Era una di quelle fotografie prese in modo che gli occhi vi seguono mentre vi muovete. IL GRANDE FRATELLO VI GUARDA, diceva la scritta appostavi sotto.

Dentro all'appartamento una voce dolciastra leggeva un elenco di cifre che aveva qualche cosa a che fare con la produzione della ghisa. La voce veniva da una placca di metallo oblunga, simile a uno specchio opaco, che faceva parte della superficie della parete di destra. Winston girò un interruttore e la voce si abbassò un poco, ma le parole si potevano distinguere. tuttavia, sempre assai chiaramente. Quel l'apparecchio (che veniva chiamato teleschermo) si poteva bensì abbassare ma non mai annullare dei tutto. Si diresse alla finestra, piccola fragile figuretta, la cui magrezza era accentuata dalla tuta azzurra in cui consisteva l'uniforme dei Partito. 1 capelli erano biondi, molto chiari, il colorito della faccia lievemente sanguigno, la pelle raschiata da ruvide saponette e da lamette che avevano perso il filo da tempo, e dal freddo del. l'inverno che proprio allora era finito.

Fuori, anche attraverso i vetri chiusi della finestra, il mondo pareva freddo. Giù, nella strada, mulinelli di vento giravano polvere e carta straccia a spirale e, sebbene splendesse il sole e il cielo fosse d'un luminoso azzurro, nessun oggetto all'intorno sembrava rimandare il colore, con l'eccezione dei cartelloni che erano incollati da per tutto. La faccia dai baffi neri riguardava da ogni angolo. Ce n'era una proprio nella casa di fronte. IL GRANDE FRATELLO VI GUARDA, diceva la scritta, mentre gli occhi neri fissavano con penetrazione quelli di Winston. Più sotto, a livello della strada, un altro cartellone, stracciato a un angolo, sbatteva coi vento, scoprendo e nascondendo, alternativamente, la parola SOCING. Lontano, un elicottero volava fra un tetto e l'altro, se ne restava librato per qualche istante come un moscone, e poi saettava con una curva in altra direzione. Era la squadra di polizia, che curiosava nelle finestre della gente. Le squadre non erano gran che importanti tuttavia.

Quella che soprattutto contava era la polizia dei pensiero, la cosiddetta Psicopolizia.

 

 

 


Se ne tornò al tavolo, intinse la penna, e scrisse:

 

Al futuro o al passato, a un tempo in cui il pensiero è libero, quando gli uomini sono differenti l'uno dall'altro e non vivono soli ... a un tempo in cui esiste la verità e quel che è fatto non può essere disfatto:

Dall'età del livellamento, dall'età della solitudine, dall'età del Grande Fratello, dall'età del bispensiero ... tanti saluti!

 

 

 


La libertà consiste nella libertà di dire che due più due fanno quattro. Se è concessa questa libertà, ne seguono tutte le altre.

 

 

 

 

 


«La prima cosa che tu devi capire è che il potere è collettivo. L'individuo raggiunge il potere solo in quanto cessa di essere individuo. Tu conosci lo slogan dei Partito: “La libertà è schiavitù”. Hai mai pensato che si può rovesciarlo? La schiavitù è libertà. Fino a quando è solo e libero, l'essere umano è sempre condannato alla sconfitta. Deve essere così, perché ogni essere umano è condannato a morire, il che costituisce la maggiore di tutte le possibili sconfitte. Ma se egli riesce a fare una completa, totale sottomissione e rinunzia, se riesce a evadere dalla sua stessa identità, se si può completamente immedesimare nel Partito, in modo da fare che egli sia il Partito, solo allora riesce a essere onnipotente e immortale. La seconda cosa che tu devi capire è che il potere significa il potere sugli uomini. Sul corpo... ma soprattutto sulla mente. li potere sulla materia, quella che tu chiami realtà esterna, non è importante. Il nostro controllo della materia è già assoluto e totale».

[…]

«Noi controlliamo la materia perché controlliamo lo spirito. La realtà sta dentro il cranio.

[…]

Il potere consiste appunto nell'infliggere la sofferenza e la mortificazione li potere consiste nel fare a pezzi i cervelli degli uomini e nel ricomporli in nuove forme e combinazioni di nostro gradimento. Riesci a vedere, ora, quale tipo di mondo stiamo creando? Esso è proprio l'esatto opposto di quella stupida utopia edonistica immaginata dai riformatori dei passato. Un mondo di paura, di tradimenti e di torture, un mondo di gente che calpesta e di gente che è calpestata, un mondo che diventerà non meno, ma più spietato, man mano che si perfezionerà. li progresso, nel nostro mondo, vorrà, dire soltanto il progresso della sofferenza. Le civiltà dei passato pretendevano di essere fondate sull'amore e sulla giustizia. La nostra è fondata sull'odio. Nel nostro mondo non vi saranno altri sentimenti che la paura, il furore, il trionfo, e l'automortificazione. Tutto il resto verrà distrutto, completamente distrutto. Già stiamo abbattendo i residui dei pensiero che erano sopravvissuti da prima della Rivoluzione. Abbiamo abolito i leganti tra figli e genitori, tra uomo e uomo, e tra uomo e donna. Nessuno ha il coraggio di fidarsi più della propria moglie, dei proprio figlio; nel futuro non ci saranno né mogli, né amici. I bambini verranno presi appena nati alle loro madri così come le uova vengono sottratte alle galline. L'istinto sessuale verrà sradicato. La procreazione diventerà una formalità annuale come il rinnovo della tessera annonaria. Noi aboliremo lo stesso piacere sessuale. I nostri neurologi stanno facendo ricerche in proposito. Non esisterà più il concetto di lealtà, a meno che non si tratti di lealtà verso il Partito. Non ci sarà più amore eccetto l'amore per il Grande Fratello. Non ci sarà più il riso, eccetto il riso di trionfo su un nemico sconfitto. Non ci sarà più arte, più letteratura, più scienza. Una volta onnipotenti, non avremo più alcun bisogno della scienza. Non ci sarà più alcuna distinzione tra la bellezza e la bruttezza. Non vi sarà più alcun interesse, più alcun piacere a condurre l'esistenza. Le soddisfazioni che derivano dallo spirito di emulazione non esisteranno più. Ma ci sarà sempre, intendimi bene, Winston, l'ubriacatura dei potere, che crescerà e si perfezionerà costantemente e costantemente diverrà più raffinata e sottile. Sempre, a ogni momento, ci sarà il brivido della vittoria, la sensazione di vivido piacere che si ha nel calpestare un nemico disarmato. Se vuoi un simbolo figurato dei futuro, immagina uno stivale che calpesta un volto umano per sempre.»

[ed. Mondadori, Milano 1989]

 


ALDOUS HUXLEY

Huxley
da Il mondo nuovo

(Brave New World) - 1932

 

«Ma perché è proibito?» domandò il Selvaggio. Nella sua emozione di trovarsi con un uomo che aveva letto Shakespeare, aveva momentaneamente dimenticato ogni altra cosa.

Il Governatore alzò le spalle.

«Perché è vecchio; questa è la ragione principale. Qui non ci è permesso l'uso delle vecchie cose.»

«Anche quando sono belle?»

«Soprattutto quando sono belle. La bellezza attira, e noi non vogliamo che la gente sia attirata dalle vecchie cose. Noi vogliamo che ami le nuove.»

«Ma le nuove sono tanto stupide e orribili! Questi spettacoli dove non c'è nulla all'infuori di elicotteri che volano dappertutto e dove si sente la gente che si bacia.» Fece una smorfia. «"Caproni e scimmie."» Soltanto con le parole d'Otello egli poté dare un corso conveniente al suo disprezzo e al suo odio.

«Dei buoni animali domestici, dopo tutto» mormorò il Governatore a mo' di parentesi.

«Perché non fate leggere loro Otello, piuttosto?» […].

«Perché il nostro mondo non è il mondo di Otello. Non si possono fare delle macchine senza acciaio, e non si possono fare delle tragedie senza instabilità sociale. Adesso il mondo è stabile. La gente è felice; ottiene ciò che vuole e non vuole mai ciò che non può ottenere. Sta bene; è al sicuro; non è mai malata; non ha paura della morte; è serenamente ignorante della passione e della vecchiaia; non è ingombrata né da padri né da madri; non ha spose, figli o amanti che procurino loro emozioni violente; è condizionata in tal modo che praticamente non può fare a meno di condursi come si deve. E se per caso qualche cosa non va, c'è il soma... che voi gettate via, fuori dalle finestre, in nome della libertà, signor Selvaggio. Libertà!» si mise a ridere. «V'aspettate che i Delta sappiano che cos'è la libertà! Ed ora vi aspettate che capiscano Otello! Povero ragazzone!»

Il Selvaggio restò un momento in silenzio. «Nonostante tutto» insistette ostinato « Otello è una bella cosa, Otello vale più dei film odorosi».

«Certo,» ammise il Governatore «ma questo è il prezzo con cui dobbiamo pagare la stabilità. Bisogna scegliere tra la felicità e ciò che una volta si chiamava la grande arte. Abbiamo sacrificato la grande arte. Ora abbiamo i film odorosi e l'organo profumato.»

«Ma non significano nulla.»

«Hanno un senso loro proprio. Rappresentano una quantità di sensazioni gradevoli per il pubblico.»

 

 


«Cosa?» fece il Selvaggio che non capiva.

«È una delle condizioni della perfetta salute. È per questo che abbiamo reso obbligatorie le cure S.P.V.»

«S.P.V.?»

«Surrogato di Passione Violenta. Regolarmente, una volta al mese, irrighiamo tutto l'organismo con adrenalina. È l'equivalente fisiologico completo della paura e della collera. Tutti gli effetti tonici dell'uccisione di Desdemona e del fatto che è uccisa da Otello, senza nessuno degli inconvenienti.»

«Ma io amo gli inconvenienti. »

«Noi no» disse il Governatore. « Noi preferiamo fare le cose. con ogni comodità.»

«Ma io non ne voglio di comodità. Io voglio Dio, voglio la poesia, voglio il pericolo reale, voglio la libertà, voglio la bontà. Voglio il peccato.»

«Insomma » disse Mustafà Mond « voi reclarnate il diritto di essere infelice.»

«Ebbene, sì» disse il Selvaggio in tono di sfida «io reclamo il diritto d'essere infelice.»

«Senza parlare dei diritto di diventar vecchio e brutto e impotente; il diritto d'avere la sifilide e il cancro; il diritto d'avere poco da mangiare; il diritto d'essere pidocchioso; il diritto di vivere nell'apprensione costante di ciò che potrà accadere domani; il diritto di prendere il tifo; il diritto di essere torturato da indicibili dolori d'ogni specie.»

Ci fu un lungo silenzio.

«Io li reclamo tutti» disse il Selvaggio finalmente.

Mustafà Mond alzò le spalle. «Voi siete il benvenuto» rispose.

[ed. Mondadori, Milano 1991]


 


 



COME È MUTATA

LA RAPPRESENTAZIONE DEL FUTURO NEL CINEMA?

 

 

 

Nel cinema fantascientifico si individuano due fondamentali tipologie di rappresentazione del futuro:

 

1)    LA POST-CIVILTÀ, LA CATASTROFE

 

The Day afterMad Max 1999. Fuga da New York L’uomo del giorno dopo Waterworld.

 

2)    L’ENFATIZZAZIONE DELLA CITTÀ

 

Metropolis di Fritz Lang. 1926 – L’uomo che visse nel futuro (The Time Machine) di George Pal. 1960 – L’uomo che fuggì dal futuro (THX 1138) di George Lucas. 1971 – 2002: i sopravvissuti (Soylent Green) di Richard Fleischer. 1973 – Rollerball di Norman Jewison. 1975 – La fuga di Logan (Logan’s Run) di Michael Anderson. 1976 – Blade Runner di Ridley Scott. 1982 – Orwell 1984 di Michael Radford. 1984 – Brazil di Terry Gilliam. 1985 – Strange Days di Kathryn Bigelow. 1995 – Il quinto elemento (Le cinquième element) di Luc Besson. 1997 – Matrix di Wachowski Br. 1999 – Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor) di Josef Rusnak. 1999.

 

Si tratta naturalmente di uno schema molto generale che non riesce ad includere opere fondamentali, difficilmente collocabili proprio a causa della loro vasta portata tematica e stilistica; basti pensare a quello che può essere considerato il capostipite vero di tutta la fantascienza contemporanea: 2001 Odissea nello spazio di S.Kubrick.

In questo lavoro, nostra intenzione è occuparci prevalentemente della cosiddetta fantascienza “sociologica”, che in un modo o nell’altro ha un debito di ispirazione con le opere letterarie di George Orwell e Aldous Huxley. Un cinema che ha concentrato la propria attenzione sui rapporti tra società, individuo, tecnica e potere, e che si riconosce nella seconda tipologia indicata: quella che abbiamo chiamato «Enfatizzazione della città». Ovviamente si tratta di un ambito molto vasto, all’interno del quale sono state prese in considerazione alcune opere che ci parevano particolarmente significative. Tra queste, due – L’uomo che fuggì dal futuro e Brazil – sono state solamente citate in elenco, nonostante il suo notevole valore, poiché i film erano irreperibili. Opere che sfuggono a questo schema, ma che comunque sono implicate nei temi che ci interessano, sono Fahrenheit 451 di Francois Truffaut (1965), Gattaca di M.Niccol (1997) e The Truman Show di Peter Weir (1998).

Un discorso a parte meriterebbe l’altro grande filone della fantascienza, quello dell’esplorazione dello spazio e dell’incontro con intelligenze aliene, con l’eccezione di un capitolo della saga di Alien (Alien3 di David Fincher. 1992) che per alcuni aspetti rientra nella nostra tematica.

 

 

LA CITTÀ TOTALE

 

È in Metropolis di Fritz Lang, una delle opere fondamentali agli albori stessi del cinema, che incontriamo la prima rappresentazione della «città-macchina», in uno scenario di urbanizzazione totale. L’intero organismo sociale-urbano appare dominato dai ritmi che caratterizzano l’industria. Le macchine hanno un aspetto titanico, quasi totalmente sottratto al controllo umano; macchina-moloch che divora e quasi si nutre dell’energia fornita dai lavoratori. Nella riduzione dell’uomo a ingranaggio, reso schiavo dai meccanismi che fanno funzionare il tutto, si anticipano in temi che nel ’36 Chaplin articolerà magistralmente in Tempi moderni. Predomina uno schema di tipo ideologico-politico, anche se retoricamente mitigato nel finale sin troppo conciliante: lo sfruttamento e l’alienazione; la divisione tra proprietari dei mezzi e lavoratori sottomessi (masse).

Le macchine rappresentano il motore profondo, sotterraneo della città, in una divisione manichea tra la superficie scintillante e vitale della città e gli inferi del lavoro. La città, rappresentata in uno sviluppo verticale (sia in alto che nel profondo – impressione suscitata in Lang dalla visione di New York), è attraversata orizzontalmente da ponti, sopraelevate che si intersecano come fossero passerelle, vive come una specie di struttura globale, senza più un punto di riferimento fisso. Scompare quasi il livello del suolo come piano fondamentale dell’orientamento. Tale impostazione, nelle rappresentazioni successive, si potenzierà in modo enfatico, con alcune significative variazioni d’insieme. Nei primi film avveniristici, compresa la fantascienza di serie B, prevalgono infatti le linee, o le forme sferiche, strutture geometriche in ogni caso. Il futuro appare fondamentalmente dominato dalla razionalità (spesso asettica e oppressiva come in Rollerball) dal metallo e dal vetro.

A partire dagli anni ’50, fino agli anni ’80, si passa da un immaginario dominato dalla potenza titanica e rumorosa dell’industria (Metropolis) ad uno dove l’origine stessa della tecnologia tende ad occultarsi, e a divenire sempre più fluida e silenziosa nei suoi movimenti (passaggio dalla meccanica all’elettronica) (Rollerball, Gattaca). È un futuro di superfici lisce, lucenti. Allo stesso modo le astronavi si immaginano affusolate, a forma di missile – quelle umane –, e quelle aliene a forma discoide; forma quest’ultima che lascia intuire la supposizione di una superiorità tecnologica capace di violare le leggi della gravità (che sono retaggio terrestre, ctonico, residuo pesante della materia). Il metallo è modellato senza che appaiano giunture o saldature, segno di una progressiva liberazione del progresso tecnologico dal lavoro. Gli spazi – esterni o interni – corrispondono a questa purificazione tecnologica. Rarefazione dei rumori, pulizia. La natura fa da quieto ornamento estetico, interamente tutelata e controllata dalla tecnica; negli interni prevalgono gli ambienti bianchi – così come prevalentemente bianchi sono i costumi (talvolta metallizzati) – e le tecnologie domestiche sono a scomparsa. Si tratta di un mondo ovattato, caratterizzato da una esteriore armonia: un clima che spesso indica un prevalere delle dinamiche della totalità sugli individui. Il funzionamento dell’insieme riduce e inquadra di fatto gli spazi del comportamento dei singoli; la possibilità della trasgressione e dell’avventura si rifugia sempre più nel sogno e nella narcosi (droghe e virtualità).

In sintesi possiamo dire che l’atteggiamento nei confronti della tecnologia, fino agli anni ottanta, è duplice: si notano certamente la diffidenza e il timore causati dalla consapevolezza dell’emancipazione della tecnica rispetto al controllo umano. Paure queste che spesso sono all’origine di derive conservatrici o reazionarie (è sintomatico che negli scontri con forze aliene, dopo l’iniziale e apparentemente inevitabile disfatta, la riscossa e la vittoria venga spesso fatta dipendere dal ricorso retorico e romantico ai “vecchi sani sistemi”, dalle capacità di improvvisazione e di imprevedibilità degli umani, oppure – talvolta – dalla scoperta di un banalissimo “punto debole” nella supertecnologia degli avversari). In Rollerball è l’individuo, nella sua eroica e irriducibile solitudine, e in fondo grazie alla sua forza fisica, a incrinare gli apparati del potere e del controllo universale. Ma nel medesimo tempo emerge in tutta evidenza l’entusiasmo ossequioso e ingenuo nei confronti dell’inevitabile progresso scientifico e delle “magnifiche sorti” della tecnica, destinata a cambiare radicalmente, e in meglio, la vita degli uomini.

Agli inizi degli anni ottanta le cose cambiano radicalmente. Blade Runner rappresenta una svolta epocale per il cinema, che condizionerà in modo definitivo l’immaginario di tutto il successivo cinema avveniristico.

Innanzitutto assistiamo alla scomparsa della demarcazione tra giorno e notte. L’ambiente (totalmente urbano – il finale sui boschi è un chiaro svolo utopistico) si fa uniformemente notturno, inquinato, plumbeo, piovoso, magmatico. La geometria delle linee lascia il posto – pur in una verticalità che non ha fine e che si perde in un cielo denso e pesante – a strutture barocche, massicce e caotiche, attraversate da fasci di luce dei neon, intermittenti, elettrici, che mal sopportano un enorme dispendio di energia. Metropoli come stratificazione, accumulo, senza soluzione di continuità. Ricompare il livello del suolo (che tornerà a sparire nella giocosa città-videogame de Il quinto elemento), un po’ casba un po’ chinatown; un melting pot colorato, chiassoso e distratto, che si assiepa ai chioschi dove servono fast-food tra il messicano e l’orientale. Un bassofondo fatiscente e, immaginiamo, carico di odori impastati dall’umidità e dai fumi che emette il sottosuolo, reso probabile dai semafori, dalle vetture (volanti) della polizia, dai venditori e dai neon. Marciapiedi e vie dove scorre la vita dei più, di coloro che mai potranno permettersi di “ricominciare una nuova vita sulla colonia «extra-mondo»”, come recitano gli schermi pubblicitari piazzati sui carghi che sorvolano le strade.

Da struttura globale la città si è trasformata definitivamente in organismo, senza intelligenza. L’architettura – compresi gli interni: alcove male illuminate, dense di fumo, con una dominanza di forme cubiche, calcaree, gessose e comunque “dense” – si riproduce sul modello del “biologico”. Il nuovo problema che si affaccia nel film è infatti la contaminazione tra elettronica e biologia, tra altissima tecnologia e artigianato da bottega, dove si fabbricano occhi e finti-veri serpenti. È il confine di ciò che è umano, e il senso stesso di questa definizione, ad apparire fluttuante e indeterminato. Serve un test che si effettua con una macchina capace di registrare variazioni impercettibili del diametro pupillare, per stabilire la differenza tra uomo e replicante.

Il passo successivo – ma che assolutamente si concilia con questo scenario come suo inevitabile doppio (cos’altro prometterebbe il seducente richiamo di “extra-mondo”?) – è la città-simulacro, la simulazione interattiva globale di Matrix e Il tredicesimo piano, dove è la realtà stessa a sconfinare definitivamente nel virtuale.

La differenza di Blade Runner, rispetto agli esiti digitali di Matrix, è la pesantezza, il senso di gravità che vi si avverte. Il sogno tecnologico della superficie liscia e lucente è naufragato in una disillusione fisica, palpabile. L’ipertecnologia ha la stessa ottusità irredenta della meccanica. Condiziona la vita senza offrire ad essa nessuna vera soluzione. Di lì a poco ricomparirà l’acciaio arrugginito nel cargo spaziale del penultimo Alien, città-fonderia abbandonata ad un viaggio senza fine e senza ritorno. Disancorata definitivamente da qualsiasi utopia terrestre, incomprensibile involucro materiale che separa i corpi dal nulla cosmico, salvandoli, ma rappresentando al tempo stesso la loro tomba gelata ed enigmatica. L’alieno non è fuori, è dentro, ed “è stato con noi per tutto il viaggio”.

 

 

 

POTERE, VIRTUALITÀ

 

Il futuro della fantascienza è fondamentalmente totalitario. Mutano le modalità e i timori che vengono messi in scena, ma un elemento comune sembra essere la forte implicazione della tecnica nei meccanismi di prevaricazione dell’individuo (in modo particolare nella sua versione mediatica – informatizzata). Implicazione che può essere strumentale: la tecnica al servizio del controllo e del consenso; oppure diretta: autonomia della tecnica stessa, invasività della tecnica che finisce per costituire di per sé una forma di potere.

Di Metropolis si è già detto. Assistiamo ad una vera e propria rivolta di stampo luddista contro le macchine, che dettano i ritmi del lavoro in un ordine triste e militarista. Gli operai camminano a testa bassa, in file ordinate e rassegnate, e l’incidente che interrompe la catena della produzione (non si sa cosa si produce, ma probabilmente – e questa è l’intuizione geniale di Metropolis che ne fa davvero un film avveniristico – è la vita in superficie della città stessa) appare come un vero sacrificio umano, come un’offerta ad un dio pagano. Vi è comunque ancora la presenza dei capitalisti, descritti come signori dediti al lusso e all’ozio, veri occulti responsabili dell’oppressione delle masse. Lo schema superficie/sottosuolo recupera simbologie arcaiche e infernali e allude alla rimozione della coscienza stessa dell’oppressione in coloro che vivono nella città. Ritroveremo questo schema nel finale di The Time Machine, con un significato capovolto, ma forse conseguenza della stessa origine: in superficie il popolo degli Eloi – facilmente immaginabili come gli antichi signori – vivono nell’apatia e nell’oblio, completamente sottomessi ai Morlock, che lavorano nascosti nel sottosuolo e conservano un barlume di memoria. Affiora in modo esplicito il tema della memoria. Gli Eloi dispongono di inutili biblioteche di libri che si sbriciolano al solo contatto, a causa del loro abbandono. Non ne conoscono la funzione.

La questione della memoria sarà preponderante in Fahrenheit 451 e in Orwell 1984. Nel primo caso il potere e il controllo sulla vita degli uomini si esprime in una vera e propria guerra incendiaria ai libri (visti come veicolo di corruzione e di pervertimento), nel secondo caso attraverso una sistematica e capillare revisione e manipolazione dei documenti del passato. Una sistema di persecuzione e di controllo che esige la negazione totale di qualsiasi dimensione “privata” dell’esistenza. Il potere tende a rendersi anonimo (il “volto” onnipresente del Grande Fratello è un simulacro, icona di un potere che deve la propria forza devastante e invasiva proprio alla sua spersonalizzazione) e a stringere un sodalizio indissolubile con il consenso che crea. Il “nemico” è dovunque, la maschera del potere è la maschera di tutti; la familiarità e la quotidianità si trasforma in un inquietante labirinto di occhi che ti guardano e che sanno di te. È questa dimensione a costituire il nesso con il tema fantascientifico degli alieni, che è stato sempre rappresentato nelle due versioni della diversità più radicale (da Alien a Starship Troopers di Paul Verhoeven) e della indistinguibile somiglianza (L’invasione degli ultracorpi; Essi vivono). Le tecniche della comunicazione di massa sono il veicolo/soggetto della manipolazione.

Cancellazione della memoria e produzione dell’oblio. In Rollerball compaiono le droghe, la pianificazione della “felicità” come dovere sociale assicurato dall’obbedienza e dalla rinuncia alla espressione dell’individualità. La violenza stessa appare nella sua potenzialità eversiva, retaggio e residuo di imprevedibile umanità, da arginare e controllare nella forma canalizzata del gioco cruento, sfogo di istinti collettivi. Al potere non è più necessaria la forza per esercitarsi (intuizione di matrice huxleyana). È l’enorme complessificazione della dinamica sociale a ridurre progressivamente lo spazio dell’individuo, al quale sfugge sempre più il controllo su ciò che regola la sua vita. Società e tecnica non si distinguono più, sono un unico corpo che non ha mete o obiettivi che non siano il proprio puro funzionamento. Il tempo risulta totalmente azzerato e sospeso in un presente che mira semplicemente a riprodursi.

Fino agli anni ’80 è ancora presente una forte carica ideologica e politica che mescola spesso i segni opposti della critica eversiva e della deriva reazionaria e individualistica. Orwell 1984 è collocato su questo versante, anche se in quel caso il supporto letterario consente una raffinata ed emblematica disanima della logica del potere in quanto tale. Ma l’impianto è fortemente politico – come d’altra parte lo era il testo orwelliano. Sullo sfondo si avvertono le esperienze dei totalitarismi del ‘900, e il futuro interessa solo come possibile laboratorio di ipotesi critiche, come specchio prospettico delle tentazioni autoritarie insite nel rapporto tra masse e potere. La caratterizzazione scenografica è infatti volutamente moderna, industriale, incupita dall’uso degli ocra e dei marroni che invecchiano artificiosamente l’insieme. La tecnologia è arretrata e rozza (la macchina elettrica per la tortura costituita da una leva di ferro e il quadrante a lancetta che misura il voltaggio, sembrano recuperati dal laboratorio di Mary Shelley). Futuro come regresso certamente, ma è facile scorgere in un simile grigiore gli incubi del dominio staliniano con tanto di ministero per la propaganda. La stessa psicopolizia ricorda da vicino l’onnipresente invadenza del KGB.

Ancora una volta è Blade Runner a rappresentare una significativa virata capace di rompere rassicuranti schemi ideologici. Film emblematicamente post-moderno, dove la novità è routine, secondo la celebre affermazione di Gehlen, dove tecnologia e business utilizzano la vita come la loro merce migliore e il conflitto sociale è disseminato nella forma della criminalità ordinaria. Film che incarna perfettamente il tema della fine della storia, in un mondo che non può più sperare nulla, perché ciò che si spera si fa e si disfa nel laboratori della biotecnologia. L’ultima speranza – l’improbabile colomba bianca che si libra in volo dalle braccia del droide morente – è affidata paradossalmente ad una «macchina» (il replicante, gioiello della biomeccanica) che percorre a ritroso la via che riconduce all’umano. Aggrappato disperatamente alle tracce della sua memoria fittizia, costruita in laboratorio come supporto di stati emotivi, il Nexus 6 con data di scadenza incorporata, va alla ricerca di una vita e di un passato che non può avere e che agli uomini sembra non interessare più.

Non ancora del tutto visibile è invece l’impatto delle tecniche informatiche – vera fucina demiurgica –, che diventerà ingrediente irrinunciabile del cinema alla fine degli anni ’90. Con Strange Days, Matrix e Il tredicesimo piano, la posta in gioco diviene la realtà stessa e la sua definizione. La perdita della differenza tra copia e originale rende impossibile la linearità temporale che ha bisogno di tracce e sedimenti per potersi ricostruire come “storia”. È l’universo della reversibilità assoluta, dove si è smarrito in modo definitivo qualsiasi fondamento che possa fungere da punto di partenza. L’arcano orientale del sapiente e della farfalla che si scambiano nel loro sogno, lascia aperta – ma simultaneamente già chiusa e velleitaria – qualsiasi soluzione. Non è chiaro perché all’umanità di Matrix, che vive sospesa nel bozzolo di un sogno criogenico governato dai computer, convenga svegliarsi, dato che il risveglio – tema su cui insiste Il tredicesimo piano e il recentissimo Vanilla Sky – può benissimo essere la porta d’ingresso di un nuovo sogno.

Forse non resta che sperare che sia sempre possibile staccare la corrente. Perché l’uscita è in fondo semplice e a portata di mano almeno quanto è complesso l’intrico. Il gesto di Truman che esce dal cielo di cartone dello Show nel quale è nato e vissuto, spingendo semplicemente una porta mimetizzata nell’azzurro, sta a significarlo. Posso sognare di chiedermi se questo è un sogno, ma la domanda stessa non può che provenire dalla differenza tra la notte e il giorno, tra il sonno e la veglia.




METROPOLIS

 


Regia: Fritz Lang

Con: Gustav Fröhlich, Brigitte Helm, Alfred Abel

Germania 1926

 

In una megalopoli dei XXI secolo dominata dal dittatore Frederson (Abel), gli operai, che vivono nei sotterranei in uno stato di semischiavitù, ripongono la loro fiducia nella mite Maria (Helm) di cui si innamora Freder (Fröhlich), figlio del dittatore. Per rompere l'unità degli operai, Frederson impone all'inventore-mago Rothwang di costruire un robot, sosia di Maria, che semini la discordia, ma questo incita gli operai alla rivolta e alla distruzione. Toccherà alla vera Maria e a Freder riconciliare le parti, ponendo le basi per un nuovo ordine sociale.

Brigitte Helm, nella doppia parte di Maria e del robot, fornisce una grande prova di recitazione.

Gli effetti speciali straordinari, le imponenti architetture (le tecniche fotografiche di Eugen Schüfftan combinavano modellismo e scenografie a grandezza naturale), i geometrici movimenti delle masse ne fanno uno dei film visivamente più impressionanti della storia del cinema. Poco riuscita e poco chiara è invece la sceneggiatura, scritta da Lang con la moglie Thea Von Harbou, dove sono presenti temi tipicamente espressionisti (il doppio) e altri profetici (la manipolazione occulta, l'esplosione della follia collettiva) e che ruota attorno al tema della rivolta dell'uomo contro la macchina, ma sfocia in un finale contraddittorio.

I distributori americani, allora, accusarono il film di comunismo, mentre il messaggio di riconciliazione finale venne apprezzato dal nazismo.

Nel 1984 il musicista Giorgio Moroder ha confezionato una nuova versione di Metropolis, virata in vari colori e accompagnata da una colonna sonora rock con canzoni, tra gli altri, di Freddy Mercury e Pat Benatar, che tenta di ricostruire l'impatto spettacolare che il film ebbe sugli spettatori dell'epoca. Fritz Lang, arrivando dalla Germania a New York, rimase talmente colpito dalla grandiosità dello skyline della metropoli, da trarne ispirazione per il film. E la grandiosità racchiusa appunto nell'idea stessa di “metropoli” come icona e incubo del futuro, rimane la cifra stilistica di questo capolavoro. La disposizione architettonica verticale delle diverse classi sociali è stata ripresa da Ridley Scott in Blade Runner.

 


 


 



THE TIME MACHINE

(L’uomo che visse nel futuro)

 

Regia: George Pal

Sceneggiatura: David Duncan dal romanzo  di H.G.Wells

Interpreti: R.Taylor, Y.Mimieux, S.Cabot.

Usa, 1960

Oscar 1960 per Effetti visivi

La storia si svolge tra il 31 dicembre 1899 e il 5 gennaio 1900. In questo arco di tempo, il protagonista, George, vive l'incredibile avventura di un viaggio nel futuro, fino all'anno 802.701. George si ferma ad esplorare quel mondo incredibilmente lontano, e lo scopre abitato da Eloi e Morlock: entrambe le genti, pur così diverse tra loro, costituiscono quanto rimane del genere umano. Gli Eloi vivono in uno stato di completa apatia, ignari del passato e del presente, alla luce del sole, immersi in una natura rigogliosa. I Morlock, che hanno conservato qualche conoscenza, vivono nell'oscuro sottosuolo, ma si sono mutati in bruti dediti al cannibalismo, ed usano i loro strani macchinari per controllare e guidare gli Eloi come mandrie di bestiame per cibarsene.

La parte più interessante del film è quella iniziale, durante la quale George prende gradualmente confidenza con i comandi della macchina del tempo e visita gli anni 1917 e 1940 (quelli delle due guerre mondiali) incontrando il figlio del suo più caro amico. Agli occhi del protagonista il trascorrere del tempo è testimoniato, di volta in volta, dal consumarsi di una candela, dal rapido alternarsi del giorno e della notte, dall'aprirsi e dal chiudersi dei petali dei fiori, dal frenetico cambiamento degli abiti di un manichino in un negozio di moda femminile. La seconda parte, quella che si svolge nel 802.701, è forse più prevedibile e convenzionale, ma è riscattata da buoni momenti drammatici (la scena del libro che si polverizza tra le mani di George è un feroce atto di accusa contro ogni forma di oscurantismo e barbarie) e il racconto degli "anelli che parlano" stende sull'avventura un velo di pessimismo vicino a quello che anima le pagine di Wells. Oltre ai pregevoli effetti speciali, merita di essere ricordata la macchina del tempo, vero e proprio gioiello realizzato da William Ferrari, tra i comandi della quale fa bella mostra la targhetta in cui è citato il nome del suo costruttore: H.G. Wells.

 



 



FAHRENHEIT 451

 

Regia di François Truffaut

Con O.Werner, J.Christie, C.Cusack

Gran Bretagna, 1966

 

Il mondo di Fahrenheit è il mondo della solitudine, dello scacco, della paura. Un mondo in cui è proibito leggere, dunque è proibito conoscere, amare, ricordare. Il passato, nella società dei pompieri incendiari, non esiste. Nessuno ricorda nulla. Il tempo è un eterno, drammatico, oppressivo presente, perché chi detiene il potere sa che controllare la memoria di un popolo significa controllare la sua stessa esistenza: chi non ha passato, non può nemmeno avere un futuro. La scrittura è bandita perché possa divenire privilegio di una élite che si arroga il diritto di stabilire ciò che è bene per gli altri. La scrittura è principio di corruzione, di infelicità: per questo va interdetta. Ma il vero motivo è un altro: l’accesso al segno scritto è smascheramento della violenza del potere, comprensione che questo non è l’unico modo possibile di esistere.

Film sulla mancanza del libro, Fahrenheit 451 è dunque un film sul potere della scrittura: scrittura come asservimento, quando questa è privilegio di pochi, scrittura come liberazione quando è nelle mani di chi libero non è. Montag, pompiere modello - ai pompieri è affidato l’incarico di bruciare i libri - e marito ottusamente soddisfatto, scopre nello sguardo di Clarissa la possibilità di altri mondi, l’esistenza del diverso. Gli nasce il dubbio che essere tutti uguali non costituisca l’unico modo per essere felici. Così ruba un libro, e il film racconta la sua difficile e appassionante riconquista, attraverso la scrittura, della propria soggettività e della propria umanità.

Tratto da un racconto di Ray Bradbury, Fahrenheit 451 è l’arte di fondere i contrari: “fredda meditazione sulla passione del fuoco”, combina l’antico con il nuovo, la realtà e la fantascienza, l’attualità e la finzione, l’astrazione e la poesia, la solennità di  una storia drammatica e la leggerezza di un racconto fiabesco. In questo è, a tutti gli effetti, un film di Truffaut, che nel suo cinema ha sempre sapientemente mescolato la prospettiva di uno sguardo infantile con la lucidità della critica sociale.

 


 



ORWELL 1984

 


Regia e scenegg. Di Michael

Con J.Hurt, R.Burton, S.Hamilton

Gran Bretagna, 1984

 

Impresa non facile quella di Michael Radford, già regista dell'ottimo Another Time Another Place e futuro coregista assieme a Troisi de Il postino. Ci avevano già provato altri a mettere in immagini il celebre 1984 di G.Orwell. Ci aveva provato nel 1955 M.Anderson, con il mediocre Nel 2000 non sorge il sole; ci avevano pensato in tempi più recenti, registi come Schlondorff e Coppola. Ci è riuscito un inglese. Il risultato è fin troppo fedele al romanzo, una pellicola che restituisce con sapienza l'atmosfera delle pagine di Orwell, senza scavare molto nella loro sostanza. La storia narrata nel romanzo è arcinota: Orwell, dal suo 1948, immagina una Londra del 1984, in un mondo divisoin due blocchi in perenne guerra tra loro. In Oceania la società è governata secondo i principi del Socing, il Socialismo Inglese, dal Grande Fratello, metafora del potere che tutto vede e tutto m 1 suoi occhi sono telecamere che spiano di continuo nelle case, il suo braccio è la psicopolizia che interviene al minimo sospetto. Rispetto a tutto questo, l'umile funzionario Winston cerca di ritrovare la propria coscienza e la propria dignità di uomo. Nel film la trama è rispettata: la progressiva ribellione di Winston Smith, l'amore per Mia fino al martirio conclusivo e totale della camera 10 1. Nel finale ‑ lucido e terribile ‑ Radford ha un colpo d'ala deciso, quando ci mostra in parallelo l’abbruttimento di Winston e la sua auto‑delazione, diffusa in tutta Oceania dagli onnipresenti teleschermi del Grande Fratello.

Il film è stato girato nello stesso anno, nello stesso periodo e negli stessi luoghi descritti da Orwell. E ci sembra importante segnalare quanto affermato da Radford in un'intervista: 1984, film e romanzo, non è una metafora unilaterale dello stalinismo, ma è un'indagine sui rischi e le tentazioni di qualsiasi potere che disponga di tecnologie sofisticate e di raffinati e invasivi strumenti di propaganda.

 

 

 

 

 

 

 

 



 



ROLLERBALL

 

Regia di Norman Jewison

Sceneggiatura di William Morrison

Con J.Caan, J.Houseman, M.Adams

Usa, 1975

 

In una cupa e annoiata società del futuro, dove le nazioni sono scomparse e un gruppo di dirigenti presiede alla soddisfazione dei bisogni degli uommi, un campione di “Rollerball” ‑ uno sport pensato per tenere sotto controllo l'aggressività e la violenza ‑ si ribella alle regole e riesce a far tremare le sicurezze del sistema. Il Rollerball è un gioco dove atleti sui pattini e in motocicletta in una pista circolare si contendono una palla d'acciaio, mettendo a repentaglio la loro vita ad ogni partita. La pista ricorda intenzionalmente la conca di una roulette. Ma ‑ come un dirigente dice nel film ‑ nessuno può aspirare ad essere più grande del gioco stesso. Ed è per questo che il potere teme la popolarità di Joanathan Hi, campione della squadra di Huston. I dirigenti gli consigliano di ritirarsi, e quando lui rifiuta, cercano di farlo soccombere eliminando ogni regola che argini la violenza del gioco.

Film violento e affascinante, tratto da un romanzo di William Morrison, Rollerball ha il sapore di una parabola moderna sul rapporto tra individuo e potere, sui meccanismi dei controllo e della manipolazione che si instaurano quando la libertà viene sacrificata al benessere e identificata semplicemente con quest'ultimo. li potere non ama la memoria e cerca di cancellare la propria stessa origine impedendo persino di raccogliere informazioni sulla storia passata, come Jonathan cerca di fare. L’unico spazio di dissenso resta l'arena, dove il protagonista consuma il proprio solitario e anarchico diritto alla disobbedienza.

 


 


 



BLADERUNNER

 

Regia di Ridely Scott

Sceneggiatura di H.Fancher e D.Peoples

Con H.Ford, R.Hauer, S.Young

Usa, 1982

 

Los Angeles 2019. La polizia riceve un comunicato di emergenza: quattro replicanti ‑ droidi realizzati attraverso tecniche di bioingegneria e utilizzati per rischiose missioni nel cosmo ‑ si sono impadroniti di una navicella spaziale, hanno ucciso l'equipaggio e sono tornati sulla terra. L'incarico di scovarli è affidato a Rick Deckard, un ex poliziotto ritenuto il migliore in questo tipo di missioni...

Il film si ispira al romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep di Philip K.Dick. Già con Alien Ridley Scott ci aveva mostrato il lato “sporco” della SF, segno di un mutamento irreversibile e definitivo nell'immaginazione del futuro.

1 fatti in questo caso si succedono nell'universo urbano di una megalopoli sviluppata, in orizzontale e in verticale, ai limiti dell'inverosimile, secondo stratificazioni architettoniche successive, in cui la contiguità tra vecchio e nuovo produce uno scenario caotico e notturno,, dove perfino la luce ‑ attraverso una pioggia fina e perenne ‑ fatica a filtrare. Ne deriva una radicale negazione di qualsiasi razionalità geometrica, di fronte all'imporsi del labirinto, dove le pareti sono a loro volta piene di rientranze e anfratti. In mezzo a questo spazio immenso e compresso, si muove una folla composita: vi si trovano mescolate razze, culture, mode, lingue in maniera inestricabile.

L’“altro”' che incontriamo in questo mondo appesantito non è più l'alieno, ma una creatura dell'uomo, del tutto simile all'uomo, persino nei bisogni e nei desideri. Per cui il rapporto umano/alieno viene fatto cortocircuitare in modo da evidenziarne l'implicita ambiguità. Chi è l'uomo e chi è l'alieno? li cacciatore di replicanti alla fine si scopre più legato alla preda di quanto non avesse mai pensato. E non tanto per quanto riguarda le caratteristiche di disumanità che dovrebbero contraddistinguerla (Alien), quanto piuttosto per il contrario, per la capacità di soffrire patire e persino di amare a cui gli uomini sembrano aver rinunciato e che risorgono, come sogni malinconici e disperati, nelle loro creature.

Una cosa è certa. Questo film ‑ come prima era stato per 2001 Odissea nello spazio di Kubrick ‑ ha definitivamente mutato l'immaginario del futuro e il linguaggio stesso della fantascienza. Qualsiasi opera successiva ne è stata debitrice.

 


 



GATTACA

(Gattaca. La porta dell’universo)

 

Regia e scenegg. di Andrew Niccol

Con E.Hawke, U.Thurman, J.Law

Usa, 1997

 

In un futuro non troppo lontano, come recita la didascalia iniziale, lo sviluppo della genetica porta a predeterminare ogni caratteristica dei nascituri, eliminando difetti e imperfezioni. Nasce così un'inevitabile discriminazione genetica a sfavore dei “nati per fede” o “di‑gene‑errato”, cioè di coloro che nascono senza manipolazione. Vincent è uno di questi, e sogna fin da bambino di raggiungere le stelle. Per poter entrare a Gattaca ‑ il centro di addestramento di questi super‑uomini destinati allo spazio assume l'identità di Jerome, un ragazzo geneticamente perfetto ma costretto su una sedia a rotelle da un incidente automobilistico. Finirà anche per confrontarsi con il fratello Anton ‑ anch'egli “perfetto” ‑ in una sfida che li accompagna sin dalla loro infanzia...

Di fronte alle paure legate ai prodigiosi sviluppi della genetica, il film di Niccol sceglie di offrire una prospettiva di speranza e ottimismo, scommettendo sull'uomo e sulle sue imperfezioni.

Il titolo del film, risulta dalla composizione delle iniziali delle quattro sostanze che combinandosi tra loro determinano la sequenza di ogni DNA: Guanina, Adenina, Timina, Citosina. Niccol opta per la casualità della natura contro l'illusione scientifica di una perfettibilità genetica che tende a eliminare il difetto, ma che apre le porte a nuove forme di discriminazione.

La fantascienza di Gattaca ricorda i temi e le atmosfere di Blade Runner di Scott e Brazil d Terry Gilliam, altrettanti film dove una socìetà fascista e totalitaria si scontrava con l'insopprimibile senso di unicità e il bisogno di libertà del singolo. Si tratta, anche in Gattaca, di una civiltà che non riesce più a distinguere la differenza, motivo per cui a Vincent riesce abbastanza facile farsi passare per Jerome, il ragazzo di cui prende l'identità. La faccia è ormai decisamente meno importante di una goccia di sangue contraffatta. Un futuro freddo, ma non cupo, quello immaginato da Niccol; disegnato sul modello degli anni '40, in cui uomini e donne eleganti si muovono in spazi architettonicamente vasti e geometrici.

 

 

 

 

 

 

 



 



THE TRUMAN SHOW

 

Regia:  PETER WEIR

Sceneggiatura:  ANDREW NICCOL

Interpreti:  J.CARREY, L.LINNEY, E.HARRIS

USA, 1998

Truman Brubank si sente osservato. E fa bene. Perché la sua vita, sin dalla nascita, è stata spiata, costantemente, senza un attimo di interruzione, da centinaia di telecamere. Truman Burbank è il più grande attore involontario di soap-operas ma esistito, probabilmente. La sua esistenza è una lunga quotidiana telenovela, che lo ha reso il personaggio televisivo più popolare d’America. Ma il fatto più singolare è che Truman nulla sospetta di questo massmediatico inganno. Crede di essere un uomo qualsiasi, in una delle più qualsiasi città di provincia, con il sole, le case colorate e i giardini ben in ordine. Ha un lavoro, una moglie devota, molti amici e una vita tranquilla, senza sapere che tutto questo è una colossale finzione, a beneficio di milioni di telespettatori. Finché un giorno l’impressione di essere osservato diventa sempre più acuta...

I labili territori dell’apparenza sono da sempre uno dei terreni preferiti da Peter Weir, sensibile regista australiano trapiantato ad Hollywood, sempre abile nell’ammantare di mistero e poesia gli aspri contorni della realtà. “The Truman Show” è un film sulla finzione più assoluta, sulla trasformazione in spettacolo della vita umana. Spettacolo con attore inconsapevole, spettacolo che getta nell’incertezza chi vi assiste, facendolo dubitare di che cosa possa essere definito ”vero” nelle città di Seaheaven, una sorta di parco dei divertimenti, limite ultimo che Truman non ha mai voluto varcare per paura dell’acqua che lo circonda. Una enorme gomma da cancellare elimina piano piano tutte le certezze, e gli affetti più cari si rivelano frutto solamente di una accorta recitazione. Un personaggio alla Forrest Gump, Truman Burbank, che perde l’innocenza nel momento in cui scopre la misura esatta della falsità, del livello di artificio che le cose più familiari possono nascondere. Guidata dalla sceneggiatura accattivante di Andrew Niccol (il regista di ”Gattaca”), la storia si fa dramma agrodolce, nello svelare le mille verità di Truman, alla scoperta di un mondo che sembra ad ogni passo sempre più sconosciuto. Weir ritma il racconto con grande delicatezza, assecondando con la macchina da presa la sorpresa nascosta dietro ogni inquadratura. I colori caldi e decisi, il sole che caratterizza sempre il paesaggio, contrastano con le domande sempre più pressanti che il protagonista si pone. Un Jim Carrey eccezionale mette a frutto ilgenio comico di “Ace Ventura” donandogli una maschera diversa, più mobile e dagli accenti eccezionalmente tragici, lunare e surreale allo stesso tempo: un uomo che ha visto svanire il suo passato nel tubo catodico, e d’improvviso si inventa un presente.

 



 



THE MATRIX

 

Regia e scenegg. di Larry & Andy Wachowski

Con K.Reeves, L.Fishburne, C-A.Moss.

Effetti visivi di J.Gaeta

Usa, 1999

 

Neo, giovane programmatore di computer, nonché hacker a tempo perso, viene contattato e coinvolto da una banda di “terroristi cibernetici” capitanata da Morpheus. La cosa lo mette in pericolo, perché d’ora in avanti si trova ad avere a che fare con un gruppo di agenti speciali preposti a vigilare sul mantenimento del segreto della realtà virtuale rappresentato da Matrix. L’umanità, infatti, crede semplicemente di vivere nella realtà, mentre invece il mondo è stato distrutto e l’umanità ridotta in schiavitù da una sofisticatissima generazione di computer, che ha creato una realtà fittizia, virtuale, generata da un’apposita interfaccia di nome Matrix. Morpheus e i suoi sono alla ricerca dell’“eletto”, colui il quale potrebbe portarli alla vittoria. E credono di averlo trovato in Neo.

Un film divenuto precocemente “cult”, che rappresenta da solo una contaminazione di generi: grafica, animazione, pittura, videoclip. Un cocktail che utilizza quale ingrediente di base la famosa storia cinese dell’imperatore che sogna di essere una farfalla - ma che poteva anche essere la farfalla a sognare l’imperatore -, shakerato in stile videogame e insaporito con elementi da “Alice nel paese delle meraviglie”, filosofie orientali un po’ pasticciate, suggestioni dalle ambientazioni di Alien e Blade Runner, coreografie kung-fu. La messa in scena è affidata per la quasi totalità all’ingegno agli effetti speciali. Duelli con gli attori sospesi nel vuoto, sparatorie a riprese a 12.000 fotogrammi al secondo, macchine da presa lanciate a velocità inaudite, al fine di comporre un ritmo adrenalinico. Un delirio visivo che si snoda in assoluta leggerezza, se non fosse per lo squarcio che improvvisamente si dischiude sulla “verità” di un mondo distrutto e abbandonato nel buio. Un momento di pura vertigine che sintetizza in un’unica visione i peggiori incubi che il cinema di fantascienza - almeno da Blade Runner - ci aveva suggerito e fatto temere.

Perché l’impressione è che questa volta, strappare il velo della menzogna virtuale che tiene l’umanità in uno stato di sogno, altro non potrebbe servire che a precipitare davvero.

 

 

 

 

 



 



IL TREDICESIMO PIANO

(The Thirteenth Floor)

 

Regia e scenegg. di J.Rusnak

Con C.Bierko, A.Mueller‑Stahl, G.Mol.

Usa, 1999

 

Los Angeles ai nostri giorni. Al tredicesimo piano di una non identificata azienda, si trova la porta per un nuovo mondo. Una. serie di computer in grado di generare una realtà virtuale abitata da simulazioni di esseri umani in grado di agire e pensare, o almeno di illudersi di farlo, in una scenografia anni '30...

Il film è tratto dal romanzo “Simulacron 3”, scritto nel 1964 da Daniel F.Galouye. Vero / Falso. Due categorie che fino a poco tempo fa delineavano ed esaurivano la capacità di osservare e cap re la realtà. Oggi questa netta divisione inizia a mostrare le prime incrinature. Una nuova categoria si insinua tra i due opposti: il "simulato". La capacità, grazie allo sfruttamento della tecnologia digitale, di creare una falsa rappresentazione del vero. Questo complesso processo di alterazione digitale della realtà, è diventato il soggetto di diverse opere cinematografiche (The Matrix, Dark City, e in un certo senso anche The Truman Show), per rendersi conto che il processo di assimilazione tra realtà e fantasia, e la conseguente perdita di ogni punto di riferimento, è una delle maggiori preoccupazioni dell'uomo di fine millennio.

Il tredicesimo piano è parte integrante del gruppo di film citati. Nel film, la Los Angeles degli anni '30 è il lato virtuale della realtà, parallelo e contiguo al mondo vero. Tutto può reggersi fino a quando la contaminazione tra i due mondi non finisce per produrre una specie di corto circuito paradossale; e fino a quando gli abitatori del mondo "vero" non arrivano a sospettare di essere essi stessi una simulazione, un sogno elettronico di un mondo ulteriore, più vasto.

Un gioco di scatole cinesi che cancella evidentemente qualsiasi certezza di un limite ultimo. Un risveglio che potrebbe benissimo essere l'ingresso in un nuovo sogno, come il finale del film lascia intuire, dietro gli scenari di un improbabile, armonico mondo futuro.

 

 

 

 

 



 


 


ALIEN 3

 

Regia di David Fincher

Sceneggiatura di D.Giler, W.Hill

Con S.Weaver, C.S.Dutton, C.Dance

Usa, 1992

 

Il terzo episodio della saga inaugurata da Ridley Scott. L’ufficiale Ripley viene raccolta ancora viva, unica sopravvissuta del suo equipaggio,  dopo un atterraggio di fortuna su un pianeta adibito a colonia penale dove i criminali vivono come in una comunità unita da una sorta di fanatismo religioso apocalittico. Con la navicella è atterrato sul pianeta anche l’alieno, ma soprattutto Ripley scoprirà di incubare nel suo stesso corpo il nemico di sempre...

Film claustrofobico e disperato. La terra non è più nemmeno una speranza, e l’unico mondo possibile e comunque da salvare, è quest’orrenda, buia prigione, dove un’enorme fonderia brucia metalli alieni. Lo scenario ricorda un’enorme fabbrica in stato di totale abbandono, dove le tecnologie sofisticate si mescolano alla ruggine e alla sporcizia.

Fincher (autore anche di Seven e The Game) riduce al minimo gli effetti speciali, e parte esattamente da dove Cameron (l’autore di Alien. Scontro finale) ci aveva lasciati, demolendo l’impianto muscolare e patriottico del secondo film. Torna alla prima suggestione di Scott: l’idea del “contagio” facendo scolorire - come nella realizzazione quasi monocromatica del film - qualsiasi illusione di vittoria e di ritorno. Il luogo dove la scena si svolge è un incubo nero, iterminabile e senza vie d’uscita. Filtra liquidi, coi quali si mimetizza la bava dell’alieno, come le peggiori segrete del romanzo gotico. Ricorda il ventre umido della Los Angeles di Blade Runner. È il futuro come non vorremmo, ma come abbiamo sempre più ragione e timore di immaginare. Ripley, sola come l’aveva voluta Scott e rasata a zero come la Giovanna d’Arco di Dreyer, forse per la prima volta è tra “pari”, in solitudine, differenza e purezza, e combatte la sua guerra privata e disperata con l’altra madre aliena. Nel suo volo finale nel cuore della fornace trascina con se il piccolo alieno che sta nascendo, stringendolo in un gesto che è contemporaneamente di imprigionamento e di estrema protezione materna.

 

 

 

 

 


SULL’ARGOMENTO…

 

Altre opere letterarie:

 

Ray Bradbury – Fahrenheit 451 – Gli anni della fenice

Clifford Simack – City (Anni senza fine)

Robert Silverberg – Il secondo viaggio

Philip Dick– La svastica sul sole

Philip Dick – Il cacciatore di androidi

Anthony Burgess – Un’arancia a orologeria

 

Altri film:

(evidenziati in neretto i film che a nostro parere sono di particolare interesse)

 

L’invasione degli ultracorpi – Don Sigel (1965)

La decima vittima – Elio Petri (1965)

Arancia meccanica – Stanley Kubrick (1971)

L’uomo che fuggì dal futuro – George Lucas (1971)

2002: i sopravvissuti – Richard Fleischer (1973)

La fuga di Logan – Michael Anderson (1976)

Quintet – Robert Altman (1978)

Brainstorm. Generazione elettronica – Douglas Trumbull (1981)

1997: fuga da New York – John Carpenter (1981)

Brazil – Terry Gilliam (1985)

Essi vivono – John Carpenter (1988)

Strange Days – Kathryn Bigelow (1995)

Johnny Mnemonic – Robert Logo (1995)

Nirvana – Gabriele Salvatores (1997)

Il quinto elemento – Luc Besson (1997)

 

Siti internet:

 

http://www.intercom.publinet.it/autori.htm

http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/orwell.htm

http://guide.supereva.it/letteratura_inglese_e_nordamericana/biografia.shtml

http://www.fenyce.net/letteratura.html

 

 

http://cinema.supereva.it/canali/festival/artI1969.html

http://www.dadascanner.com/index.html

http://www.delos.fantascienza.com/

http://www.fantascienza.com/cinema/ANNATE/1984.html

http://selfknowledge.com/index.shtml

http://cinema.supereva.it/canali/attualita/artI2226.html

http://www.35millimetri.com/film/

http://www.artz.it/artz3/index.htm

http://www.filmup.com/

http://www.filmsite.org/index.html

http://www.geocities.com/CapitolHill/6420/film.htm

http://uk.imdb.com/

http://lck.com/reVision/home.htm