PROGRAMMA DELLE DUE GIORNATE
sala audiovisivi
Introduzione sul tema e sul progetto
Zamjatin, Huxley, Orwell e l’utopia capovolta
(lettura di brevi passi scelti dalle opere, dibattito)
(Pausa)
Percorso ragionato attraverso la riduzione
cinematografica dell’opera “1984” di George Orwell)
(Pausa)
Un viaggio attraverso sogni e incubi del cinema
d’anticipazione (visione di sequenze di film con commento e discussione)
Consegne per la giornata successiva
Prima parte ® sala computer
Ripresa dei temi e degli spunti emersi nella
giornata precedente
Ricerca in internet (individuale o a piccoli gruppi)
Contenuto
delle ricerche:
Siti internet sul cinema in generale e sul cinema di
fantascienza (con particolare riferimento ai temi trattati) – Catalogazione dei siti con piccola
descrizione degli stessi
Siti internet sulla letteratura utopistica – Bibliografia essenziale con distinzione tra
autori e critica
Biografie degli autori trattati (sia scrittori che
registi) e materiali fotografici a loro inerenti.
Recensioni dei film presi in considerazione nel
lavoro (in italiano e in inglese)
Immagini tratte dal cinema di fantascienza o ad esso
inerenti
L’alieno (tipologie ed evoluzione di questo
immaginario)
La macchina e l’uomo nel cinema e nella letteratura
d’anticipazione (testi e immagini)
La città nella letteratura e nel cinema
d’anticipazione (testi e immagini)
La manipolazione dell’informazione
La manipolazione dell’uomo (sia sociale che
biologica)
(per tutte queste voci è prevista la
realizzazione di un file che raccolga ordinatamente i materiali reperiti)
Seconda parte ® Sala audiovisivi o aula magna
Visione integrale di un film e dibattito
Verifiche sul lavoro svolto
Paola Gatti
Abbiamo ancora bisogno
di utopie?
Accanto al genere filosofico dell'utopia,
la descrizione della società felice e perfetta, nel nostro secolo è nato il
genere letterario della distopia, nel quale viene presentata, non più
nel sogno ma nell'incubo, la società peggiore possibile. Dall'osservazione che
le distopie riproducono molti tratti delle utopie si è voluto spesso concludere
che esse vanno considerate quasi uno smascheramento della loro implicita
perversità. Ma il rapporto è più complesso: se l'utopia descrive una società
senza nessuna connessione spazio-temporale con quella reale e totalmente
fondata sulla razionalità, la distopia muove dalle tendenze esistenti e le
esamina nelle loro ultime conseguenze. In entrambi i casi, tuttavia, si tratta
di invitare alla progettazione di un mondo migliore.
Le distopie del nostro secolo, hanno una comune
origine nella leggenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij. In essa viene
sostenuta l'antinomia tra libertà e felicità: la prima diventa inevitabilmente
per l'uomo un peso insopportabile, e solo un potere assoluto e autoritario è in
grado di portare gli uomini alla felicità. Tale tema viene ripreso in forme
diverse dai tre romanzi distopici Noi, Il Mondo Nuovo e 1984. Il primo
sottolinea la perdita della nozione di individualità come condizione della
felicità; il secondo presenta un totalitarismo fondato sul controllo
tecnologico e sulla cancellazione dei processi naturali di riproduzione; il terzo
infine costituisce una sorta di fenomenologia del potere, in cui la teoria
della leggenda del Santo Inquisitore viene scardinata nell'affermazione di una
crudeltà totalmente fine a sé stessa.
Nel 1922 Evgenij Zamjatin, ingegnere e scrittore russo,
compone la prima antiutopia del nostro secolo: Noi. Il
romanzo si sviluppa in una serie di note in cui il protagonista, D-503,
registra puntualmente ciò che gli accade: viene così descritto lo Stato Unico,
con a capo il Benefattore, che nel 29° secolo riunisce sotto di sé l'intera
umanità. Noi è una spietata denuncia non solo del
regime sovietico instaurato da Stalin che ha tradito gli ideali della
rivoluzione russa, ma rappresenta un atto di accusa contro ogni totalitarismo e
contro la crescente meccanizzazione dell'uomo operata dallo sviluppo
scientifico e tecnologico.
Il titolo adottato da Zamjatin è di per sé
programmatico: My, cioè Noi; il
numero D-503, che è uno dei matematici dello Stato Unico e Primo costruttore
dell'Integrale, la nave interplanetaria che deve imporre agli altri pianeti il
giogo dello Stato Unico, si mette a scrivere per raccontare agli ignoti
abitanti di altri pianeti tutto quello che vede e pensa, più precisamente di
ciò che noi pensiamo (“Tutti ed io - scrive Zamjatin - siamo l'unico Noi”). I
cittadini dello Stato unico hanno perso perciò ogni nozione della propria
individualità. C'è l'auspicio che la scienza nel suo progresso riesca ad
eliminare anche le varie diversità fisiche affinché ognuno possa essere uguale
ad ogni altro. Essi non hanno nome, ma sono solo dei numeri: la coscienza della
propria individualità viene vissuta come una malattia da estirpare, perché gli
uomini valgono soltanto in quanto meccanismi di un unico e grande ingranaggio,
lo Stato mondiale.
Siamo quindi di fronte ad un enorme Leviatano, un'unica grande macchina che per funzionare richiede che ogni suo elemento sia sottoposto a regole stabilite e rigide. La danza con il suo essere codificata in ritmi e movimenti prestabiliti è elevata a metafora del nuovo ordine mondiale: “Perché la danza è bella? Risposta: perché è un movimento non libero, perché il senso profondo della danza è appunto nell'assoluta dipendenza estetica ad una costrizione ideale”.
Siamo di fronte ad un totalitarismo assoluto che
fagocita i singoli individui, vantando però la pretesa di aver fatto tutto ciò
in nome dell'amore dell'umanità.
IL
MONDO NUOVO
Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley, composto
nel 1932, si situa nell'anno 632 di Nostro Ford, un'epoca caratterizzata dal
trionfo del progresso scientifico e tecnologico che ha prodotto il più stabile
equilibrio della storia, ossia la formazione dello Stato Mondiale il cui motto
“Comunità, Identità, Stabilità” fornisce la garanzia della felicità collettiva.
Il progresso tecnologico dispiega interamente la sua efficacia a servizio
dell'ordine del mondo nuovo applicandosi ai sistemi che regolano la
riproduzione umana, la quale perde così ogni carattere naturale per essere
gestita direttamente dall'autorità statale. Viene vietato assolutamente alle
donne di generare figli e l'individuo inizia la propria vita in laboratorio. La
famiglia che ormai appartiene solo ad un lontanissimo passato viene indicata
come fonte di ogni male. La società richiede organizzazione: per il suo
perfetto funzionamento ogni elemento della collettività deve svolgere i compiti
ai quali è preposto; la predestinazione biologica si rivela così il mezzo
adeguato per realizzare tale finalità, perché determina geneticamente,
attraverso trattamenti diversificati, la divisione degli individui in caste
gerarchiche: Alfa, Beta, Gamma, Delta, Epsilon, le cui caratteristiche
psicofisiche sono programmate in funzione del ruolo che dovranno svolgere nella
società.
A
completare la predestinazione sociale dell'individuo intervengono ulteriori
tecniche quali l'ipnopedia e i metodi di condizionamento neo-pavloviani.
Attraverso l'ipnopedia, ossia l'insegnamento durante il sonno, vengono
impartiti suggerimenti a carattere morale e sociale che conducono il fanciullo
ad amare solo quei compiti che è chiamato a svolgere nella comunità. I metodi
di condizionamento neo-pavloviani consistono nell'indurre nell'individuo non
soltanto la condotta desiderata, ma persino gusti e desideri che dovrebbero
essere caratteristici della spontaneità umana, come si verifica nel caso dei
bambini delta, sottoposti a scosse elettriche ogniqualvolta tentino di
raggiungere dei fiori, al fine di suscitare in essi, inconsciamente, odio verso
tutto ciò che appartiene al mondo naturale; la motivazione di ciò risiede nella
constatazione che la fruizione della natura è gratuita e quindi inutile allo
sviluppo economico fondato sul consumo di beni materiali
Lo scenario rappresentato nel romanzo di Huxley
risulta così caratterizzato dal più integrale totalitarismo: non soltanto viene
negata agli individui la capacità di interagire autonomamente con il mondo
esterno, ma persino la possibilità di sentirsi liberi internamente, perché
ormai ognuno appartiene a tutti gli altri, principio fondamentale nel Mondo
Nuovo.
1984
Quella crudeltà a cui Il Mondo
Nuovo non aveva fatto ricorso, perché la libertà contro cui essa avrebbe
dovuto dirigersi era stata geneticamente sconfitta, si impone ferocemente in 1984. Quando Orwell scrive il suo libro, ottenendo il titolo invertendo
le ultime due cifre dell'anno di composizione 1948, egli ha ormai ben presente
gli orrori del nazismo, del fascismo, del comunismo russo, perciò la sua opera
non è tanto una profezia del futuro quanto una trasfigurazione della realtà.
Orwell si appropria delle concezioni di Dostoevskij,
Zamjatin e Huxley riguardanti la natura del potere, inteso come strumento
necessario per garantire la felicità umana attraverso l'abolizione della
libertà, e le fa esplodere dall'interno: la vera natura del potere è il potere,
l'unica finalità della classe dominante è l'esercizio assoluto del potere.
Il mondo in 1984 è diviso in
tre grandi aree politiche: l'Oceania, in cui si svolgono le vicende del
romanzo, l'Eurasia e l'Estasia, perennemente in guerra fra loro, attraverso
continui cambi di alleanze. La filosofia imperante in Oceania è il Socing, in
Eurasia è il neo-bolscevismo e in Estasia il Culto della Morte. In realtà le
tre filosofie e i rispettivi sistemi sociali non si distinguono affatto tra
loro. La spiegazione di questo stato di guerra permanente si trova nel bisogno
di mantenere la gente in una tensione emotiva costante. Unitamente a ciò vi è
la necessità di distruggere continuamente i prodotti del lavoro umano per
mantenere le masse nella miseria; la povertà soltanto è infatti in grado di
garantire quella disuguaglianza sociale che lo sviluppo industriale e
tecnologico avrebbe con il tempo gradualmente eliminato.
Il profondo senso di malessere e di precarietà
diffuso tra la popolazione viene poi convogliato dal Partito in odio verso il
nemico e nel culto della personalità del Grande Fratello, figura mitica
attraverso il quale il Partito si relaziona all'esterno. Il nucleo familiare
seppur non abolito è stato sciolto nei legami che lo tenevano unito: ognuno
diventa il peggior nemico dell'altro, l'uomo contro la donna, i figli contro i
genitori. La procreazione è diventata una pura formalità da adempiere per
donare figli al Partito. Questi inoltre vengono fin da piccoli irrigimentati
nella Lega giovanile delle Spie e incitati a denunciare qualunque atteggiamento
sospetto manifestato dai genitori.
Attraverso teleschermi installati in ogni luogo
abitato e sorvegliati dall'occhio vigile della psico-polizia, la polizia del
pensiero, si è mantenuti costantemente sotto controllo: occorre quindi imparare
a modulare ogni tono di voce, a camuffare ogni emozione, a calibrare ogni
sguardo e movimento onde evitare il rischio di essere vaporizzati. Quasi mai si
è uccisi per qualcosa che si è commesso, ma per quel che si sarebbe voluto commettere, lo “psicoreato” appunto. Obiettivi
principali del Socing, Socialismo inglese,
seppur mai apertamente dichiarati dal Partito, sono il controllo sul passato,
il bispensiero e la neolingua. Assistiamo costantemente nel romanzo alla falsificazione
della storia. La manipolazione e la cacellazione del passato fa sì che la
popolazione più povera sopporti le condizioni presenti non potendo in alcun
modo confrontarle con quelle di un'altra epoca, essendo stato distrutto tutto
ciò che vi è appartenuto, documenti,
libri, arte e architettura. Il continuo aggiornamento del passato
salvaguarda l'infallibilità del Partito, il quale non può mai mutare opinione o
sbagliare nelle sue previsioni. Infatti la funzione che si richiede prima di
ogni cosa ai membri del partito è il cosiddetto «controllo della realtà», in
neolingua detto «bispensiero»: non solo occorre accettare prontamente quanto
sostenuto dall'oligarchia, ma credervi realmente e ricordare che i fatti
avvennero proprio in quella maniera: se il Partito lo desidera la somma di 2+2
è matematicamente 5: Bispensiero sta a significare la capacità di
condividere simultaneamente due opinione palesemente contraddittorie e di
accettarle entrambe.
La neolingua è la lingua ufficiale che in Oceania il
Partito ha iniziato ad introdurre al posto dell'inglese, ed è frutto di un
artificioso processo di semplificazione della lingua finalizzato alla
cancellazione di parole indesiderabili e quindi dei modi di pensare
corrispondenti.
Il potere ricercato dal Partito diventa quindi
assoluto, non è tanto il potere sulle cose, è il potere sulla mente degli
uomini, sulle sue intenzioni, sui suoi pensieri. Il fine non è di distruggere
il nemico, ma di trasformarlo; prima di essere ucciso, il suo cervello,
attraverso torture sempre più raffinate, viene fatto a pezzi e ricomposto alla
maniera desiderata dal Partito. Viene quindi annullata anche l'unica e sola
forma di protesta possibile che sembra prospettarsi a Winston Smith prima della
morte -- Morire odiandoli, questa era la libertà -. Invece il romanzo
si chiude su queste parole: Amava il Grande Fratello. Al termine della
sua rieducazione terribile, Smith è stato definitivamente sconfitto.
EVGENIJ I. ZAMJATIN
da Noi
(My) - 1924
Sommario: Un avviso. La linea
più saggia. Un poema.
Trascrivo semplicemente ‑
parola per parola ‑ quel che è stato pubblicato oggi nel Giornale
Statale:
“Tra 120 giorni sarà portata
a termine la costruzione dell'Integrale.
è vicina la grande ora storica, in cui il primo Integrale si lancerà nello spazio dei mondi. Mille
anni or sono i vostri eroici antenati piegarono al potere dello Stato Unico
tutta la sfera terrestre. Una gesta ancor più gloriosa vi attende: integrare la
sconfinata equazione dell'universo per mezzo dell'Integrale elettrico di vetro,
dal respiro di fuoco. Spetterà a voi di piegare al benefico giogo della ragione
gli esseri ignoti che abitano sugli altri pianeti, forse ancora nello stato
selvaggio della libertà. Se essi non comprenderanno che noi portiamo loro la
felicità matematicamente esatta, è nostro dovere costringerli ad essere felici.
Ma prima dell'arma noi sperimentiamo la parola.
“In nome del Benefattore si
portano a conoscenza di tutti i numeri dello Stato Unico:
“Chiunque ne senta in sé la
forza è tenuto a comporre trattati, poemi, manifesti, odi o altre opere sulla
bellezza e grandezza dello Stato Unico.
“Sarà questo il primo carico
che l'Integrale trasporterà.
“Evviva lo Stato Unico,
evviva i numeri, evviva il Benefattore»
Scrivo ‑ sento: mi ardono
le gote. Si: integrare la grandiosa equazione universale. Sì: raddrizzare la
selvaggia curva, raddrizzarla secondo la tangente – asintote – seguendo la
linea retta. Perché la linea dello Stato Unico è quella retta. La grande,
divina, precisa saggia linea retta la più saggia delle linee...
Io, D‑503, costruttore dell'Integrale, io sono
soltanto uno dei matematici dello Stato Unico. La mia penna, abituata alle
cifre, non è capace di creare la musica delle assonanze e delle rime. Io cerco
soltanto di prender nota di ciò che vedo, di ciò che penso ‑ piú
precisamente di ciò che noi pensiamo (appunto: noi e che Noi sia il titolo
delle mie note). Ma essendo appunto un prodotto della nostra vita, della vita
matematicamente perfetta dello Stato Unico, non sarà, già per questa semplice
ragione, opera di poesia? Si ‑ lo credo e lo so.
Scrivo ciò e sento: mi
ardono le gote. Probabilmente ciò somiglia a quel che prova una donna quando
per la prima volta sente in sé il polso di un nuovo uomo ‑ ancora
minuscolo e cieco. Sono io e nello stesso tempo non sono io. Per lunghi mesi
ancora dovrò nutrirlo col mio succo, col mio sangue e poi con dolore staccarlo
da me e metterlo ai piedi dello Stato Unico.
Ma io sono pronto, come
ognuno ‑ o quasi ognuno di noi. Sono pronto.
Sommario E balletto.
L'armonia quadrata. L'X.
Primavera. Dall'al di là del Muro Verde, dalle
selvagge pianure invisibili, il vento porta il polline giallo e melato di non
so quali fiori. A causa di questo polline dolce le labbra si seccano – vi passi
sopra la lingua ad ogni istante ‑ e probabilmente tutte le donne che si
incontrano hanno le labbra dolci (e anche gli uomini naturalmente). Ciò
disturba un po' il pensare logico.
Ma in compenso che cielo! Azzurro, non turbato da
una sola nuvola (fino a che punto doveva essere selvaggio il gusto degli
antichi, se i loro poeti potevano ispirarsi a questi disordinati, assurdi
ammassi di vapore che si urtano l'un l'altro stupidamente). lo amo e sono
sicuro di non sbagliarmi se dico: noi amiamo soltanto questo cielo sterile e
irreprensibile. In simili giorni tutto il mondo sembra fuso dello stesso vetro
eterno e impassibile del Muro Verde e di tutti i nostri edifici. In giorni come
questi si vede la profondità azzurra delle cose e le loro stupefacenti
equazioni, ignote fino ad ora – anche in ciò che vi è di più abituale,
quotidiano.
Ecco un esempio. Questa
mattina io mi trovavo sul cantiere dove si costruisce l'Integrale, e ad un tratto ho visto le macchine: con occhi chiusi, come in uno stato di oblio,
giravano le sfere dei regolatori: i pistoni, luccicando oscillavano a destra e
a sinistra; il bilanciere superbamente muoveva le spalle; e al ritmo di una
musica inudibile strideva lo scalpello dei banco d'intaglio. E a un tratto io
vidi tutta la bellezza di questo grandioso balletto di macchine, inondato da un
leggero sole azzurro.
E piú avanti ho domandato a
me stesso: perché è bello? Perché la danza è bella? Risposta: perché è un
movimento non libero, perché il senso profondo della danza è appunto nell'assoluta
dipendenza estetica ad una costrizione ideale.
Sommario: Io non credo. I
trattori. Una scheggia umana.
Credete o non credete che morirete? Sì, l'uomo è mortale,
io sono un uomo: per conseguenza... No, non è questo. io so che voi lo sapete.
Ma io domando: vi è mai successo di crederlo, di crederlo in modo definitivo,
di crederlo non con l'intelletto, ma coi corpo, di sentire che le vostre dita,
che adesso tengono questa pagina, saranno gialle, gelide?...
No: naturalmente non credete
– e per questo finora non avete fatto un salto dal decimo piano sul selciato,
per questo mangiate, voltate la pagina, vi rasate, sorridete, scrivete...
Proprio questo, sì, proprio
questo succede a me, oggi. Io so che questa piccola lancetta nera dell'orologio
scivolerà ecco fin qui, a mezzanotte e poi di nuovo si muoverà oltre, passerà
non so quale ultimo limite e sopraggiungerà un domani inverosimile. Io questo
lo so, eppure non credo, o forse mi pare che le ventiquattro ore siano
ventiquattro anni. E per questo posso fare ancora qualcosa, affrettarmi per
andare in qualche posto rispondere alle domande, arrampicarmi su per i pioli
della scala dell'Integrale. Sento anche come esso ondeggia sull'acqua e
comprendo che debbo afferrarmi ad una maniglia e sotto la mano sento il gelido
vetro. Vedo come le gru vive e trasparenti, piegato il loro collo e allungato
il becco, con cura e tenerezza danno da mangiare all'Integrale, il terribile alimento esplosivo dei propulsori. E giù
sul fiume vedo chiaramente le vene e i nodi azzurri dell'acqua sollevati dal
vento. Ma tutto ciò mi è lontano, estraneo, piatto, come un disegno su di un
foglio di carta. E nemmeno a farlo apposta è il viso piatto come un disegno del
Secondo Costruttore, il quale a un tratto dice:
“E così, quanto carburante
per i propulsori? A calcolare tre ore, tre ore e mezzo...”
Davanti a me ‑ come in
proiezione, sul disegno ‑ la mia mano col misuratore, la tabella dei
logaritmi sulla quale leggo la cifra 15.
“Quindici tonnellate. Ma no,
meglio... caricatene... si, cento...”
[ed.
Feltinelli]
(Nineteen
Eighty-Four) - 1949
Era una fresca limpida giornata d'aprile e gli orologi segnavano l'una. Winston Smith, col mento sprofondato nel bavero del cappotto per non esporlo al rigore dei vento, scivolò lento fra i battenti di vetro dell'ingresso agli Appartamenti della Vittoria, ma non tanto testo da impedire che una folata di polvere e sabbia entrasse con lui.
L'ingresso rimandava odore di cavoli bolliti e di vecchi tappeti
sfilacciati. Nel fondo, un cartellone a colori, troppo grande per essere
affisso all'interno, era stato inchiodato al muro. Rappresentava una faccia
enorme più larga d'un metro: la faccia d'un uomo di circa quarantacinque anni,
con grossi baffi neri e lineamenti rudi ma non sgradevoli. Winston s'avviò per
le scale. Era inutile tentare l'ascensore Anche nei giorni buoni funzionava di
rado, e nelle ore diurne la corrente elettrica era interrotta. Faceva parte dei
progetto economico in preparazione della Settimana dell'Odio. L'appartamento
era al settimo piano, e Winston, che aveva i suoi trentanove anni e un'ulcera
varicosa sulla caviglia destra, saliva lentamente, fermandosi ogni tanto per
riposare. A ciascun pianerottolo, proprio di fronte allo sportello
dell'ascensore il cartellone con la faccia enorme riguardava dalla parete. Era
una di quelle fotografie prese in modo che gli occhi vi seguono mentre vi
muovete. IL GRANDE FRATELLO VI GUARDA, diceva la scritta appostavi sotto.
Dentro all'appartamento una voce dolciastra leggeva
un elenco di cifre che aveva qualche cosa a che fare con la produzione della
ghisa. La voce veniva da una placca di metallo oblunga, simile a uno specchio
opaco, che faceva parte della superficie della parete di destra. Winston girò
un interruttore e la voce si abbassò un poco, ma le parole si potevano
distinguere. tuttavia, sempre assai chiaramente. Quel l'apparecchio (che veniva
chiamato teleschermo) si poteva bensì abbassare ma non mai annullare dei tutto.
Si diresse alla finestra, piccola fragile figuretta, la cui magrezza era
accentuata dalla tuta azzurra in cui consisteva l'uniforme dei Partito. 1
capelli erano biondi, molto chiari, il colorito della faccia lievemente sanguigno,
la pelle raschiata da ruvide saponette e da lamette che avevano perso il filo
da tempo, e dal freddo del. l'inverno che proprio allora era finito.
Fuori, anche attraverso i
vetri chiusi della finestra, il mondo pareva freddo. Giù, nella strada, mulinelli
di vento giravano polvere e carta straccia a spirale e, sebbene splendesse il
sole e il cielo fosse d'un luminoso azzurro, nessun oggetto all'intorno
sembrava rimandare il colore, con l'eccezione dei cartelloni che erano
incollati da per tutto. La faccia dai baffi neri riguardava da ogni angolo. Ce
n'era una proprio nella casa di fronte. IL GRANDE FRATELLO VI GUARDA, diceva la
scritta, mentre gli occhi neri fissavano con penetrazione quelli di Winston.
Più sotto, a livello della strada, un altro cartellone, stracciato a un angolo,
sbatteva coi vento, scoprendo e nascondendo, alternativamente, la parola
SOCING. Lontano, un elicottero volava fra un tetto e l'altro, se ne restava
librato per qualche istante come un moscone, e poi saettava con una curva in
altra direzione. Era la squadra di polizia, che curiosava nelle finestre della
gente. Le squadre non erano gran che importanti tuttavia.
Quella che soprattutto
contava era la polizia dei pensiero, la cosiddetta Psicopolizia.
Se ne tornò al tavolo,
intinse la penna, e scrisse:
Al futuro o al passato, a un
tempo in cui il pensiero è libero, quando gli uomini sono differenti l'uno
dall'altro e non vivono soli ... a un tempo in cui esiste la verità e quel che
è fatto non può essere disfatto:
Dall'età del livellamento, dall'età della solitudine, dall'età del
Grande Fratello, dall'età del bispensiero ... tanti saluti!
La libertà consiste nella
libertà di dire che due più due fanno quattro. Se è concessa questa libertà, ne
seguono tutte le altre.
«La prima cosa che tu devi capire è che il potere è
collettivo. L'individuo raggiunge il potere solo in quanto cessa di essere
individuo. Tu conosci lo slogan dei Partito: “La libertà è schiavitù”. Hai mai
pensato che si può rovesciarlo? La schiavitù è libertà. Fino a quando è solo e
libero, l'essere umano è sempre condannato alla sconfitta. Deve essere così,
perché ogni essere umano è condannato a morire, il che costituisce la maggiore
di tutte le possibili sconfitte. Ma se egli riesce a fare una completa, totale
sottomissione e rinunzia, se riesce a evadere dalla sua stessa identità, se si
può completamente immedesimare nel Partito, in modo da fare che egli sia il Partito, solo allora riesce a
essere onnipotente e immortale. La seconda cosa che tu devi capire è che il
potere significa il potere sugli uomini. Sul corpo... ma soprattutto sulla
mente. li potere sulla materia, quella che tu chiami realtà esterna, non è
importante. Il nostro controllo della materia è già assoluto e totale».
[…]
«Noi controlliamo la materia perché controlliamo lo
spirito. La realtà sta dentro il cranio.
[…]
Il potere consiste appunto
nell'infliggere la sofferenza e la mortificazione li potere consiste nel fare a
pezzi i cervelli degli uomini e nel ricomporli in nuove forme e combinazioni di
nostro gradimento. Riesci a vedere, ora, quale tipo di mondo stiamo creando?
Esso è proprio l'esatto opposto di quella stupida utopia edonistica immaginata
dai riformatori dei passato. Un mondo di paura, di tradimenti e di torture, un
mondo di gente che calpesta e di gente che è calpestata, un mondo che diventerà
non meno, ma più spietato, man mano che si perfezionerà. li progresso, nel
nostro mondo, vorrà, dire soltanto il progresso della sofferenza. Le civiltà
dei passato pretendevano di essere fondate sull'amore e sulla giustizia. La
nostra è fondata sull'odio. Nel nostro mondo non vi saranno altri sentimenti
che la paura, il furore, il trionfo, e l'automortificazione. Tutto il resto
verrà distrutto, completamente distrutto. Già stiamo abbattendo i residui dei
pensiero che erano sopravvissuti da prima della Rivoluzione. Abbiamo abolito i
leganti tra figli e genitori, tra uomo e uomo, e tra uomo e donna. Nessuno ha
il coraggio di fidarsi più della propria moglie, dei proprio figlio; nel futuro
non ci saranno né mogli, né amici. I bambini verranno presi appena nati alle
loro madri così come le uova vengono sottratte alle galline. L'istinto sessuale
verrà sradicato. La procreazione diventerà una formalità annuale come il
rinnovo della tessera annonaria. Noi aboliremo lo stesso piacere sessuale. I
nostri neurologi stanno facendo ricerche in proposito. Non esisterà più il
concetto di lealtà, a meno che non si tratti di lealtà verso il Partito. Non ci
sarà più amore eccetto l'amore per il Grande Fratello. Non ci sarà più il riso,
eccetto il riso di trionfo su un nemico sconfitto. Non ci sarà più arte, più
letteratura, più scienza. Una volta onnipotenti, non avremo più alcun bisogno
della scienza. Non ci sarà più alcuna distinzione tra la bellezza e la
bruttezza. Non vi sarà più alcun interesse, più alcun piacere a condurre
l'esistenza. Le soddisfazioni che derivano dallo spirito di emulazione non
esisteranno più. Ma ci sarà sempre, intendimi bene, Winston, l'ubriacatura dei
potere, che crescerà e si perfezionerà costantemente e costantemente diverrà
più raffinata e sottile. Sempre, a ogni momento, ci sarà il brivido della
vittoria, la sensazione di vivido piacere che si ha nel calpestare un nemico
disarmato. Se vuoi un simbolo figurato dei futuro, immagina uno stivale che
calpesta un volto umano per sempre.»
[ed. Mondadori, Milano 1989]
da Il mondo nuovo
(Brave New
World) - 1932
«Ma perché è proibito?»
domandò il Selvaggio. Nella sua emozione di trovarsi con un uomo che aveva letto
Shakespeare, aveva momentaneamente dimenticato ogni altra cosa.
Il Governatore alzò le
spalle.
«Perché è vecchio; questa è
la ragione principale. Qui non ci è permesso l'uso delle vecchie cose.»
«Anche quando sono belle?»
«Soprattutto quando sono belle.
La bellezza attira, e noi non vogliamo che la gente sia attirata dalle vecchie
cose. Noi vogliamo che ami le nuove.»
«Ma le nuove sono tanto
stupide e orribili! Questi spettacoli dove non c'è nulla all'infuori di
elicotteri che volano dappertutto e dove si sente
la gente che si bacia.» Fece una smorfia. «"Caproni e scimmie."»
Soltanto con le parole d'Otello egli poté dare un corso conveniente al suo
disprezzo e al suo odio.
«Dei buoni animali
domestici, dopo tutto» mormorò il Governatore a mo' di parentesi.
«Perché non fate leggere
loro Otello, piuttosto?» […].
«Perché il nostro mondo non è il mondo di Otello.
Non si possono fare delle macchine senza acciaio, e non si possono fare delle
tragedie senza instabilità sociale. Adesso il mondo è stabile. La gente è
felice; ottiene ciò che vuole e non vuole mai ciò che non può ottenere. Sta
bene; è al sicuro; non è mai malata; non ha paura della morte; è serenamente
ignorante della passione e della vecchiaia; non è ingombrata né da padri né da
madri; non ha spose, figli o amanti che procurino loro emozioni violente; è
condizionata in tal modo che praticamente non può fare a meno di condursi come
si deve. E se per caso qualche cosa non va, c'è il soma... che voi gettate via,
fuori dalle finestre, in nome della libertà, signor Selvaggio. Libertà!» si
mise a ridere. «V'aspettate che i Delta sappiano che cos'è la libertà! Ed ora
vi aspettate che capiscano Otello! Povero ragazzone!»
Il Selvaggio restò un
momento in silenzio. «Nonostante tutto» insistette ostinato « Otello è una
bella cosa, Otello vale più dei film odorosi».
«Certo,» ammise il
Governatore «ma questo è il prezzo con cui dobbiamo pagare la stabilità.
Bisogna scegliere tra la felicità e ciò che una volta si chiamava la grande
arte. Abbiamo sacrificato la grande arte. Ora abbiamo i film odorosi e l'organo
profumato.»
«Ma non significano nulla.»
«Hanno un senso loro
proprio. Rappresentano una quantità di sensazioni gradevoli per il pubblico.»
«Cosa?» fece il Selvaggio
che non capiva.
«È una delle condizioni
della perfetta salute. È per questo che abbiamo reso obbligatorie le cure
S.P.V.»
«S.P.V.?»
«Surrogato di Passione Violenta. Regolarmente, una
volta al mese, irrighiamo tutto l'organismo con adrenalina. È l'equivalente
fisiologico completo della paura e della collera. Tutti gli effetti tonici
dell'uccisione di Desdemona e del fatto che è uccisa da Otello, senza nessuno
degli inconvenienti.»
«Ma io amo gli
inconvenienti. »
«Noi no» disse il
Governatore. « Noi preferiamo fare le cose. con ogni comodità.»
«Ma io non ne voglio di
comodità. Io voglio Dio, voglio la poesia, voglio il pericolo reale, voglio la
libertà, voglio la bontà. Voglio il peccato.»
«Insomma » disse Mustafà
Mond « voi reclarnate il diritto di essere infelice.»
«Ebbene, sì» disse il Selvaggio
in tono di sfida «io reclamo il diritto d'essere infelice.»
«Senza parlare dei diritto
di diventar vecchio e brutto e impotente; il diritto d'avere la sifilide e il
cancro; il diritto d'avere poco da mangiare; il diritto d'essere pidocchioso;
il diritto di vivere nell'apprensione costante di ciò che potrà accadere
domani; il diritto di prendere il tifo; il diritto di essere torturato da
indicibili dolori d'ogni specie.»
Ci fu un lungo silenzio.
«Io li reclamo tutti» disse
il Selvaggio finalmente.
Mustafà Mond alzò le spalle.
«Voi siete il benvenuto» rispose.
[ed. Mondadori, Milano 1991]
COME È MUTATA
LA
RAPPRESENTAZIONE DEL FUTURO NEL CINEMA?
Nel
cinema fantascientifico si individuano due fondamentali tipologie di
rappresentazione del futuro:
1)
LA
POST-CIVILTÀ, LA CATASTROFE
The Day after – Mad Max – 1999. Fuga da New York – L’uomo
del giorno dopo – Waterworld.
2)
L’ENFATIZZAZIONE
DELLA CITTÀ
Metropolis di Fritz Lang. 1926 – L’uomo
che visse nel futuro (The Time
Machine) di George Pal. 1960 – L’uomo che fuggì dal futuro (THX 1138) di George Lucas. 1971 – 2002:
i sopravvissuti (Soylent Green) di
Richard Fleischer. 1973 – Rollerball di Norman Jewison. 1975 –
La
fuga di Logan (Logan’s Run) di
Michael Anderson. 1976 – Blade Runner di Ridley Scott. 1982 –
Orwell
1984 di Michael Radford. 1984 – Brazil di Terry Gilliam. 1985 – Strange
Days di Kathryn Bigelow. 1995 – Il quinto elemento (Le cinquième element) di Luc Besson. 1997 – Matrix
di Wachowski Br. 1999 – Il tredicesimo piano (The Thirteenth Floor) di Josef
Rusnak. 1999.
Si
tratta naturalmente di uno schema molto generale che non riesce ad includere
opere fondamentali, difficilmente collocabili proprio a causa della loro vasta
portata tematica e stilistica; basti pensare a quello che può essere considerato
il capostipite vero di tutta la fantascienza contemporanea: 2001
Odissea nello spazio di S.Kubrick.
In
questo lavoro, nostra intenzione è occuparci prevalentemente della cosiddetta
fantascienza “sociologica”, che in un modo o nell’altro ha un debito di
ispirazione con le opere letterarie di George Orwell e Aldous Huxley. Un cinema
che ha concentrato la propria attenzione sui rapporti tra società, individuo,
tecnica e potere, e che si riconosce nella seconda tipologia indicata: quella
che abbiamo chiamato «Enfatizzazione della città». Ovviamente si tratta di un
ambito molto vasto, all’interno del quale sono state prese in considerazione
alcune opere che ci parevano particolarmente significative. Tra queste, due – L’uomo
che fuggì dal futuro e Brazil – sono state solamente citate
in elenco, nonostante il suo notevole valore, poiché i film erano irreperibili.
Opere che sfuggono a questo schema, ma che comunque sono implicate nei temi che
ci interessano, sono Fahrenheit 451 di Francois Truffaut
(1965), Gattaca di M.Niccol (1997) e The Truman Show di Peter
Weir (1998).
Un
discorso a parte meriterebbe l’altro grande filone della fantascienza, quello
dell’esplorazione dello spazio e dell’incontro con intelligenze aliene, con
l’eccezione di un capitolo della saga di Alien (Alien3 di David Fincher.
1992) che per alcuni aspetti rientra nella nostra tematica.
LA CITTÀ TOTALE
È in Metropolis
di Fritz Lang, una delle opere fondamentali agli albori stessi del cinema, che
incontriamo la prima rappresentazione della «città-macchina», in uno scenario
di urbanizzazione totale. L’intero organismo sociale-urbano appare dominato dai
ritmi che caratterizzano l’industria. Le macchine hanno un aspetto titanico,
quasi totalmente sottratto al controllo umano; macchina-moloch che divora e
quasi si nutre dell’energia fornita dai lavoratori. Nella riduzione dell’uomo a
ingranaggio, reso schiavo dai meccanismi che fanno funzionare il tutto, si
anticipano in temi che nel ’36 Chaplin articolerà magistralmente in Tempi moderni. Predomina uno schema di
tipo ideologico-politico, anche se retoricamente mitigato nel finale sin troppo
conciliante: lo sfruttamento e l’alienazione; la divisione tra proprietari dei
mezzi e lavoratori sottomessi (masse).
Le
macchine rappresentano il motore profondo, sotterraneo della città, in una
divisione manichea tra la superficie scintillante e vitale della città e gli
inferi del lavoro. La città, rappresentata in uno sviluppo verticale (sia in
alto che nel profondo – impressione suscitata in Lang dalla visione di New
York), è attraversata orizzontalmente da ponti, sopraelevate che si intersecano
come fossero passerelle, vive come una specie di struttura globale, senza più
un punto di riferimento fisso. Scompare quasi il livello del suolo come piano
fondamentale dell’orientamento. Tale impostazione, nelle rappresentazioni
successive, si potenzierà in modo enfatico, con alcune significative variazioni
d’insieme. Nei primi film avveniristici, compresa la fantascienza di serie B,
prevalgono infatti le linee, o le forme sferiche, strutture geometriche in ogni
caso. Il futuro appare fondamentalmente dominato dalla razionalità (spesso
asettica e oppressiva come in Rollerball) dal metallo e dal vetro.
A
partire dagli anni ’50, fino agli anni ’80, si passa da un immaginario dominato
dalla potenza titanica e rumorosa dell’industria (Metropolis) ad uno dove
l’origine stessa della tecnologia tende ad occultarsi, e a divenire sempre più
fluida e silenziosa nei suoi movimenti (passaggio dalla meccanica
all’elettronica) (Rollerball, Gattaca). È un futuro di superfici
lisce, lucenti. Allo stesso modo le astronavi si immaginano affusolate, a forma
di missile – quelle umane –, e quelle aliene a forma discoide; forma
quest’ultima che lascia intuire la supposizione di una superiorità tecnologica
capace di violare le leggi della gravità (che sono retaggio terrestre, ctonico,
residuo pesante della materia). Il metallo è modellato senza che appaiano
giunture o saldature, segno di una progressiva liberazione del progresso
tecnologico dal lavoro. Gli spazi – esterni o interni – corrispondono a questa
purificazione tecnologica. Rarefazione dei rumori, pulizia. La natura fa da
quieto ornamento estetico, interamente tutelata e controllata dalla tecnica;
negli interni prevalgono gli ambienti bianchi – così come prevalentemente
bianchi sono i costumi (talvolta metallizzati) – e le tecnologie domestiche
sono a scomparsa. Si tratta di un mondo ovattato, caratterizzato da una
esteriore armonia: un clima che spesso indica un prevalere delle dinamiche
della totalità sugli individui. Il funzionamento dell’insieme riduce e inquadra
di fatto gli spazi del comportamento dei singoli; la possibilità della
trasgressione e dell’avventura si rifugia sempre più nel sogno e nella narcosi
(droghe e virtualità).
In
sintesi possiamo dire che l’atteggiamento nei confronti della tecnologia, fino
agli anni ottanta, è duplice: si notano certamente la diffidenza e il timore
causati dalla consapevolezza dell’emancipazione della tecnica rispetto al
controllo umano. Paure queste che spesso sono all’origine di derive
conservatrici o reazionarie (è sintomatico che negli scontri con forze aliene,
dopo l’iniziale e apparentemente inevitabile disfatta, la riscossa e la
vittoria venga spesso fatta dipendere dal ricorso retorico e romantico ai
“vecchi sani sistemi”, dalle capacità di improvvisazione e di imprevedibilità
degli umani, oppure – talvolta – dalla scoperta di un banalissimo “punto
debole” nella supertecnologia degli avversari). In Rollerball è l’individuo,
nella sua eroica e irriducibile solitudine, e in fondo grazie alla sua forza
fisica, a incrinare gli apparati del potere e del controllo universale. Ma nel
medesimo tempo emerge in tutta evidenza l’entusiasmo ossequioso e ingenuo nei
confronti dell’inevitabile progresso scientifico e delle “magnifiche sorti”
della tecnica, destinata a cambiare radicalmente, e in meglio, la vita degli
uomini.
Agli
inizi degli anni ottanta le cose cambiano radicalmente. Blade Runner rappresenta
una svolta epocale per il cinema, che condizionerà in modo definitivo
l’immaginario di tutto il successivo cinema avveniristico.
Innanzitutto
assistiamo alla scomparsa della demarcazione tra giorno e notte. L’ambiente
(totalmente urbano – il finale sui boschi è un chiaro svolo utopistico) si fa
uniformemente notturno, inquinato, plumbeo, piovoso, magmatico. La geometria
delle linee lascia il posto – pur in una verticalità che non ha fine e che si
perde in un cielo denso e pesante – a strutture barocche, massicce e caotiche,
attraversate da fasci di luce dei neon, intermittenti, elettrici, che mal
sopportano un enorme dispendio di energia. Metropoli come stratificazione,
accumulo, senza soluzione di continuità. Ricompare il livello del suolo (che
tornerà a sparire nella giocosa città-videogame de Il quinto elemento), un
po’ casba un po’ chinatown; un melting pot
colorato, chiassoso e distratto, che si assiepa ai chioschi dove servono
fast-food tra il messicano e l’orientale. Un bassofondo fatiscente e, immaginiamo,
carico di odori impastati dall’umidità e dai fumi che emette il sottosuolo,
reso probabile dai semafori, dalle vetture (volanti) della polizia, dai
venditori e dai neon. Marciapiedi e vie dove scorre la vita dei più, di coloro
che mai potranno permettersi di “ricominciare una nuova vita sulla colonia
«extra-mondo»”, come recitano gli schermi pubblicitari piazzati sui carghi che
sorvolano le strade.
Da
struttura globale la città si è trasformata definitivamente in organismo, senza
intelligenza. L’architettura – compresi gli interni: alcove male illuminate,
dense di fumo, con una dominanza di forme cubiche, calcaree, gessose e comunque
“dense” – si riproduce sul modello del “biologico”. Il nuovo problema che si
affaccia nel film è infatti la contaminazione tra elettronica e biologia, tra
altissima tecnologia e artigianato da bottega, dove si fabbricano occhi e
finti-veri serpenti. È il confine di ciò che è umano, e il senso stesso di
questa definizione, ad apparire fluttuante e indeterminato. Serve un test che
si effettua con una macchina capace di registrare variazioni impercettibili del
diametro pupillare, per stabilire la differenza tra uomo e replicante.
Il
passo successivo – ma che assolutamente si concilia con questo scenario come
suo inevitabile doppio (cos’altro prometterebbe il seducente richiamo di
“extra-mondo”?) – è la città-simulacro, la simulazione interattiva globale di Matrix
e Il tredicesimo piano, dove è la realtà stessa a sconfinare
definitivamente nel virtuale.
La
differenza di Blade Runner, rispetto agli esiti digitali di Matrix,
è la pesantezza, il senso di gravità che vi si avverte. Il sogno tecnologico
della superficie liscia e lucente è naufragato in una disillusione fisica,
palpabile. L’ipertecnologia ha la stessa ottusità irredenta della meccanica.
Condiziona la vita senza offrire ad essa nessuna vera soluzione. Di lì a poco
ricomparirà l’acciaio arrugginito nel cargo spaziale del penultimo Alien,
città-fonderia abbandonata ad un viaggio senza fine e senza ritorno.
Disancorata definitivamente da qualsiasi utopia terrestre, incomprensibile
involucro materiale che separa i corpi dal nulla cosmico, salvandoli, ma
rappresentando al tempo stesso la loro tomba gelata ed enigmatica. L’alieno non
è fuori, è dentro, ed “è stato con noi per tutto il viaggio”.
POTERE,
VIRTUALITÀ
Il
futuro della fantascienza è fondamentalmente totalitario. Mutano le modalità e
i timori che vengono messi in scena, ma un elemento comune sembra essere la
forte implicazione della tecnica nei meccanismi di prevaricazione
dell’individuo (in modo particolare nella sua versione mediatica –
informatizzata). Implicazione che può essere strumentale: la tecnica al servizio del controllo e del consenso;
oppure diretta: autonomia della
tecnica stessa, invasività della tecnica che finisce per costituire di per sé
una forma di potere.
Di Metropolis
si è già detto. Assistiamo ad una vera e propria rivolta di stampo luddista contro le macchine, che dettano
i ritmi del lavoro in un ordine triste e militarista. Gli operai camminano a
testa bassa, in file ordinate e rassegnate, e l’incidente che interrompe la
catena della produzione (non si sa cosa si produce, ma probabilmente – e questa
è l’intuizione geniale di Metropolis che ne fa davvero un film
avveniristico – è la vita in superficie della città stessa) appare come un vero
sacrificio umano, come un’offerta ad
un dio pagano. Vi è comunque ancora la presenza dei capitalisti, descritti come
signori dediti al lusso e all’ozio, veri occulti responsabili dell’oppressione delle
masse. Lo schema superficie/sottosuolo recupera simbologie arcaiche e infernali
e allude alla rimozione della coscienza stessa dell’oppressione in coloro che
vivono nella città. Ritroveremo questo schema nel finale di The
Time Machine, con un significato capovolto, ma forse conseguenza della
stessa origine: in superficie il popolo degli Eloi – facilmente immaginabili
come gli antichi signori – vivono nell’apatia e nell’oblio, completamente
sottomessi ai Morlock, che lavorano nascosti nel sottosuolo e conservano un
barlume di memoria. Affiora in modo esplicito il tema della memoria. Gli Eloi
dispongono di inutili biblioteche di libri che si sbriciolano al solo contatto,
a causa del loro abbandono. Non ne conoscono la funzione.
La
questione della memoria sarà preponderante in Fahrenheit 451 e in Orwell
1984. Nel primo caso il potere e il controllo sulla vita degli uomini
si esprime in una vera e propria guerra incendiaria ai libri (visti come
veicolo di corruzione e di pervertimento), nel secondo caso attraverso una
sistematica e capillare revisione e manipolazione dei documenti del passato.
Una sistema di persecuzione e di controllo che esige la negazione totale di
qualsiasi dimensione “privata” dell’esistenza. Il potere tende a rendersi
anonimo (il “volto” onnipresente del Grande Fratello è un simulacro, icona di
un potere che deve la propria forza devastante e invasiva proprio alla sua
spersonalizzazione) e a stringere un sodalizio indissolubile con il consenso
che crea. Il “nemico” è dovunque, la maschera del potere è la maschera di
tutti; la familiarità e la quotidianità si trasforma in un inquietante
labirinto di occhi che ti guardano e che sanno
di te. È questa dimensione a costituire il nesso con il tema fantascientifico
degli alieni, che è stato sempre
rappresentato nelle due versioni della diversità
più radicale (da Alien a Starship Troopers di Paul Verhoeven)
e della indistinguibile somiglianza (L’invasione
degli ultracorpi; Essi vivono). Le tecniche della
comunicazione di massa sono il veicolo/soggetto della manipolazione.
Cancellazione
della memoria e produzione dell’oblio. In Rollerball compaiono le droghe, la
pianificazione della “felicità” come dovere sociale assicurato dall’obbedienza
e dalla rinuncia alla espressione dell’individualità. La violenza stessa appare
nella sua potenzialità eversiva, retaggio e residuo di imprevedibile umanità,
da arginare e controllare nella forma canalizzata del gioco cruento, sfogo di
istinti collettivi. Al potere non è più necessaria la forza per esercitarsi (intuizione
di matrice huxleyana). È l’enorme complessificazione della dinamica sociale a
ridurre progressivamente lo spazio dell’individuo, al quale sfugge sempre più
il controllo su ciò che regola la sua vita. Società e tecnica non si
distinguono più, sono un unico corpo che non ha mete o obiettivi che non siano
il proprio puro funzionamento. Il
tempo risulta totalmente azzerato e sospeso in un presente che mira
semplicemente a riprodursi.
Fino
agli anni ’80 è ancora presente una forte carica ideologica e politica che
mescola spesso i segni opposti della critica eversiva e della deriva
reazionaria e individualistica. Orwell 1984 è collocato su questo
versante, anche se in quel caso il supporto letterario consente una raffinata
ed emblematica disanima della logica del potere in quanto tale. Ma l’impianto è
fortemente politico – come d’altra parte lo era il testo orwelliano. Sullo
sfondo si avvertono le esperienze dei totalitarismi del ‘900, e il futuro
interessa solo come possibile laboratorio di ipotesi critiche, come specchio
prospettico delle tentazioni autoritarie insite nel rapporto tra masse e
potere. La caratterizzazione scenografica è infatti volutamente moderna,
industriale, incupita dall’uso degli ocra e dei marroni che invecchiano artificiosamente l’insieme.
La tecnologia è arretrata e rozza (la macchina elettrica per la tortura
costituita da una leva di ferro e il quadrante a lancetta che misura il
voltaggio, sembrano recuperati dal laboratorio di Mary Shelley). Futuro come
regresso certamente, ma è facile scorgere in un simile grigiore gli incubi del
dominio staliniano con tanto di ministero per la propaganda. La stessa
psicopolizia ricorda da vicino l’onnipresente invadenza del KGB.
Ancora
una volta è Blade Runner a rappresentare una significativa virata capace di
rompere rassicuranti schemi ideologici. Film emblematicamente post-moderno,
dove la novità è routine, secondo la
celebre affermazione di Gehlen, dove tecnologia e business utilizzano la vita
come la loro merce migliore e il conflitto sociale è disseminato nella forma
della criminalità ordinaria. Film che incarna perfettamente il tema della fine
della storia, in un mondo che non può più sperare nulla, perché ciò che si
spera si fa e si disfa nel laboratori della biotecnologia. L’ultima speranza –
l’improbabile colomba bianca che si libra in volo dalle braccia del droide
morente – è affidata paradossalmente ad una «macchina» (il replicante, gioiello
della biomeccanica) che percorre a ritroso la via che riconduce all’umano.
Aggrappato disperatamente alle tracce della sua memoria fittizia, costruita in
laboratorio come supporto di stati emotivi, il Nexus 6 con data di scadenza incorporata, va alla ricerca di una
vita e di un passato che non può avere e che agli uomini sembra non interessare
più.
Non
ancora del tutto visibile è invece l’impatto delle tecniche informatiche – vera
fucina demiurgica –, che diventerà ingrediente irrinunciabile del cinema alla
fine degli anni ’90. Con Strange Days, Matrix e Il tredicesimo piano, la posta in
gioco diviene la realtà stessa e la sua definizione. La perdita della
differenza tra copia e originale rende impossibile la linearità temporale che
ha bisogno di tracce e sedimenti per potersi ricostruire come “storia”. È
l’universo della reversibilità assoluta, dove si è smarrito in modo definitivo
qualsiasi fondamento che possa fungere da punto di partenza. L’arcano orientale
del sapiente e della farfalla che si scambiano nel loro sogno, lascia aperta –
ma simultaneamente già chiusa e velleitaria – qualsiasi soluzione. Non è chiaro
perché all’umanità di Matrix, che vive sospesa nel bozzolo
di un sogno criogenico governato dai computer, convenga svegliarsi, dato che il
risveglio – tema su cui insiste Il tredicesimo piano e il
recentissimo Vanilla Sky – può benissimo essere la porta d’ingresso di un
nuovo sogno.
Forse
non resta che sperare che sia sempre possibile staccare la corrente. Perché
l’uscita è in fondo semplice e a portata di mano almeno quanto è complesso
l’intrico. Il gesto di Truman che esce dal cielo di cartone
dello Show nel quale è nato e vissuto, spingendo semplicemente una
porta mimetizzata nell’azzurro, sta a significarlo. Posso sognare di chiedermi
se questo è un sogno, ma la domanda stessa non può che provenire dalla differenza tra la notte e il giorno, tra
il sonno e la veglia.
METROPOLIS
Regia: Fritz Lang
Con: Gustav Fröhlich, Brigitte Helm, Alfred Abel
Germania 1926
In una megalopoli dei XXI secolo dominata dal
dittatore Frederson (Abel), gli operai,
che vivono nei sotterranei in uno stato di semischiavitù, ripongono la loro
fiducia nella mite Maria (Helm) di
cui si innamora Freder (Fröhlich),
figlio del dittatore. Per rompere l'unità degli operai, Frederson impone
all'inventore-mago Rothwang di costruire un robot, sosia di Maria, che semini
la discordia, ma questo incita gli operai alla rivolta e alla distruzione.
Toccherà alla vera Maria e a Freder riconciliare le parti, ponendo le basi per
un nuovo ordine sociale.
Brigitte Helm, nella doppia parte di Maria e del
robot, fornisce una grande prova di recitazione.
Gli effetti speciali
straordinari, le imponenti architetture (le tecniche fotografiche di Eugen
Schüfftan combinavano modellismo e scenografie a grandezza naturale), i
geometrici movimenti delle masse ne fanno uno dei film visivamente più
impressionanti della storia del cinema. Poco riuscita e poco chiara è invece la
sceneggiatura, scritta da Lang con la moglie Thea Von Harbou, dove sono
presenti temi tipicamente espressionisti (il doppio) e altri profetici (la
manipolazione occulta, l'esplosione della follia collettiva) e che ruota
attorno al tema della rivolta dell'uomo contro la macchina, ma sfocia in un
finale contraddittorio.
I distributori americani, allora, accusarono il film
di comunismo, mentre il messaggio di riconciliazione finale venne apprezzato
dal nazismo.
Nel 1984 il musicista
Giorgio Moroder ha confezionato una nuova versione di Metropolis, virata in vari colori e accompagnata da una colonna sonora
rock con canzoni, tra gli altri, di Freddy Mercury e Pat Benatar, che tenta di
ricostruire l'impatto spettacolare che il film ebbe sugli spettatori
dell'epoca. Fritz Lang, arrivando dalla Germania a New York, rimase talmente
colpito dalla grandiosità dello skyline della metropoli, da trarne ispirazione
per il film. E la grandiosità racchiusa appunto nell'idea stessa di “metropoli”
come icona e incubo del futuro, rimane la cifra stilistica di questo
capolavoro. La disposizione architettonica verticale delle diverse classi
sociali è stata ripresa da Ridley Scott in Blade
Runner.
(L’uomo che visse nel futuro)
Regia: George Pal
Sceneggiatura: David Duncan dal romanzo di H.G.Wells
Interpreti: R.Taylor, Y.Mimieux, S.Cabot.
Usa, 1960
Oscar 1960 per Effetti visivi
La storia si svolge tra il
31 dicembre 1899 e il 5 gennaio 1900. In questo arco di tempo, il protagonista,
George, vive l'incredibile avventura di un viaggio nel futuro, fino all'anno
802.701. George si ferma ad esplorare quel mondo incredibilmente lontano, e lo
scopre abitato da Eloi e Morlock: entrambe le genti, pur così diverse tra loro,
costituiscono quanto rimane del genere umano. Gli Eloi vivono in uno stato di
completa apatia, ignari del passato e del presente, alla luce del sole, immersi
in una natura rigogliosa. I Morlock, che hanno conservato qualche conoscenza,
vivono nell'oscuro sottosuolo, ma si sono mutati in bruti dediti al
cannibalismo, ed usano i loro strani macchinari per controllare e guidare gli
Eloi come mandrie di bestiame per cibarsene.
La parte più interessante
del film è quella iniziale, durante la quale George prende gradualmente
confidenza con i comandi della macchina del tempo e visita gli anni 1917 e 1940
(quelli delle due guerre mondiali) incontrando il figlio del suo più caro
amico. Agli occhi del protagonista il trascorrere del tempo è testimoniato, di
volta in volta, dal consumarsi di una candela, dal rapido alternarsi del giorno
e della notte, dall'aprirsi e dal chiudersi dei petali dei fiori, dal frenetico
cambiamento degli abiti di un manichino in un negozio di moda femminile. La
seconda parte, quella che si svolge nel 802.701, è forse più prevedibile e
convenzionale, ma è riscattata da buoni momenti drammatici (la scena del libro
che si polverizza tra le mani di George è un feroce atto di accusa contro ogni
forma di oscurantismo e barbarie) e il racconto degli "anelli che
parlano" stende sull'avventura un velo di pessimismo vicino a quello che
anima le pagine di Wells. Oltre ai pregevoli effetti speciali, merita di essere
ricordata la macchina del tempo, vero e proprio gioiello realizzato da William
Ferrari, tra i comandi della quale fa bella mostra la targhetta in cui è citato
il nome del suo costruttore: H.G. Wells.
FAHRENHEIT 451
Regia di François Truffaut
Con O.Werner, J.Christie, C.Cusack
Gran Bretagna, 1966
Il mondo di Fahrenheit è il
mondo della solitudine, dello scacco, della paura. Un mondo in cui è proibito
leggere, dunque è proibito conoscere, amare, ricordare. Il passato, nella
società dei pompieri incendiari, non esiste. Nessuno ricorda nulla. Il tempo è
un eterno, drammatico, oppressivo presente, perché chi detiene il potere sa che
controllare la memoria di un popolo significa controllare la sua stessa
esistenza: chi non ha passato, non può nemmeno avere un futuro. La scrittura è
bandita perché possa divenire privilegio di una élite che si arroga il diritto
di stabilire ciò che è bene per gli altri. La scrittura è principio di
corruzione, di infelicità: per questo va interdetta. Ma il vero motivo è un
altro: l’accesso al segno scritto è smascheramento della violenza del potere,
comprensione che questo non è l’unico modo possibile di esistere.
Film sulla mancanza del
libro, Fahrenheit 451 è dunque un film sul potere della scrittura: scrittura
come asservimento, quando questa è privilegio di pochi, scrittura come
liberazione quando è nelle mani di chi libero non è. Montag, pompiere modello -
ai pompieri è affidato l’incarico di bruciare i libri - e marito ottusamente
soddisfatto, scopre nello sguardo di Clarissa la possibilità di altri mondi,
l’esistenza del diverso. Gli nasce il dubbio che essere tutti uguali non
costituisca l’unico modo per essere felici. Così ruba un libro, e il film
racconta la sua difficile e appassionante riconquista, attraverso la scrittura,
della propria soggettività e della propria umanità.
Tratto
da un racconto di Ray Bradbury, Fahrenheit 451 è l’arte di fondere i contrari:
“fredda meditazione sulla passione del fuoco”, combina l’antico con il nuovo,
la realtà e la fantascienza, l’attualità e la finzione, l’astrazione e la
poesia, la solennità di una storia
drammatica e la leggerezza di un racconto fiabesco. In questo è, a tutti gli
effetti, un film di Truffaut, che nel suo cinema ha sempre sapientemente
mescolato la prospettiva di uno sguardo infantile con la lucidità della critica
sociale.
ORWELL 1984
Regia e scenegg. Di Michael
Con J.Hurt, R.Burton, S.Hamilton
Gran Bretagna, 1984
Impresa non facile quella di
Michael Radford, già regista dell'ottimo Another
Time Another Place e futuro coregista assieme a Troisi de Il postino. Ci avevano già provato altri
a mettere in immagini il celebre 1984 di G.Orwell. Ci aveva provato nel 1955
M.Anderson, con il mediocre Nel 2000 non
sorge il sole; ci avevano pensato in tempi più recenti, registi come
Schlondorff e Coppola. Ci è riuscito un inglese. Il risultato è fin troppo
fedele al romanzo, una pellicola che restituisce con sapienza l'atmosfera delle
pagine di Orwell, senza scavare molto nella loro sostanza. La storia narrata
nel romanzo è arcinota: Orwell, dal suo 1948, immagina una Londra del 1984, in
un mondo divisoin due blocchi in perenne guerra tra loro. In Oceania la società
è governata secondo i principi del Socing, il Socialismo Inglese, dal Grande
Fratello, metafora del potere che tutto vede e tutto m 1 suoi occhi sono
telecamere che spiano di continuo nelle case, il suo braccio è la psicopolizia
che interviene al minimo sospetto. Rispetto a tutto questo, l'umile funzionario
Winston cerca di ritrovare la propria coscienza e la propria dignità di uomo.
Nel film la trama è rispettata: la progressiva ribellione di Winston Smith,
l'amore per Mia fino al martirio conclusivo e totale della camera 10 1. Nel
finale ‑ lucido e terribile ‑ Radford ha un colpo d'ala deciso,
quando ci mostra in parallelo l’abbruttimento di Winston e la sua auto‑delazione,
diffusa in tutta Oceania dagli onnipresenti teleschermi del Grande Fratello.
Il film è stato girato nello
stesso anno, nello stesso periodo e negli stessi luoghi descritti da Orwell. E
ci sembra importante segnalare quanto affermato da Radford in un'intervista:
1984, film e romanzo, non è una metafora unilaterale dello stalinismo, ma è
un'indagine sui rischi e le tentazioni di qualsiasi potere che disponga di
tecnologie sofisticate e di raffinati e invasivi strumenti di propaganda.
ROLLERBALL
Regia di Norman Jewison
Sceneggiatura di William Morrison
Con J.Caan, J.Houseman, M.Adams
In una cupa e annoiata società
del futuro, dove le nazioni sono scomparse e un gruppo di dirigenti presiede
alla soddisfazione dei bisogni degli uommi, un campione di “Rollerball” ‑
uno sport pensato per tenere sotto controllo l'aggressività e la violenza ‑
si ribella alle regole e riesce a far tremare le sicurezze del sistema. Il
Rollerball è un gioco dove atleti sui pattini e in motocicletta in una pista
circolare si contendono una palla d'acciaio, mettendo a repentaglio la loro
vita ad ogni partita. La pista ricorda intenzionalmente la conca di una
roulette. Ma ‑ come un dirigente dice nel film ‑ nessuno può
aspirare ad essere più grande del gioco stesso. Ed è per questo che il potere
teme la popolarità di Joanathan Hi, campione della squadra di Huston. I
dirigenti gli consigliano di ritirarsi, e quando lui rifiuta, cercano di farlo
soccombere eliminando ogni regola che argini la violenza del gioco.
Film violento e
affascinante, tratto da un romanzo di William Morrison, Rollerball ha il sapore di una parabola moderna sul rapporto tra
individuo e potere, sui meccanismi dei controllo e della manipolazione che si
instaurano quando la libertà viene sacrificata al benessere e identificata
semplicemente con quest'ultimo. li potere non ama la memoria e cerca di
cancellare la propria stessa origine impedendo persino di raccogliere
informazioni sulla storia passata, come Jonathan cerca di fare. L’unico spazio
di dissenso resta l'arena, dove il protagonista consuma il proprio solitario e
anarchico diritto alla disobbedienza.
BLADERUNNER
Regia di Ridely Scott
Sceneggiatura di H.Fancher e D.Peoples
Con H.Ford, R.Hauer, S.Young
Usa, 1982
Los Angeles 2019. La polizia
riceve un comunicato di emergenza: quattro replicanti ‑ droidi realizzati
attraverso tecniche di bioingegneria e utilizzati per rischiose missioni nel
cosmo ‑ si sono impadroniti di una navicella spaziale, hanno ucciso
l'equipaggio e sono tornati sulla terra. L'incarico di scovarli è affidato a
Rick Deckard, un ex poliziotto ritenuto il migliore in questo tipo di missioni...
Il film si ispira al romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep di Philip K.Dick. Già con Alien Ridley Scott ci aveva mostrato il
lato “sporco” della SF, segno di un mutamento irreversibile e definitivo
nell'immaginazione del futuro.
1 fatti in questo caso si succedono nell'universo
urbano di una megalopoli sviluppata, in orizzontale e in verticale, ai limiti
dell'inverosimile, secondo stratificazioni architettoniche successive, in cui
la contiguità tra vecchio e nuovo produce uno scenario caotico e notturno,,
dove perfino la luce ‑ attraverso una pioggia fina e perenne ‑
fatica a filtrare. Ne deriva una radicale negazione di qualsiasi razionalità
geometrica, di fronte all'imporsi del labirinto, dove le pareti sono a loro
volta piene di rientranze e anfratti. In mezzo a questo spazio immenso e
compresso, si muove una folla composita: vi si trovano mescolate razze,
culture, mode, lingue in maniera inestricabile.
L’“altro”' che incontriamo in questo mondo
appesantito non è più l'alieno, ma una creatura
dell'uomo, del tutto simile all'uomo, persino nei bisogni e nei desideri. Per
cui il rapporto umano/alieno viene fatto cortocircuitare in modo da
evidenziarne l'implicita ambiguità. Chi è l'uomo e chi è l'alieno? li
cacciatore di replicanti alla fine si scopre più legato alla preda di quanto
non avesse mai pensato. E non tanto per quanto riguarda le caratteristiche di
disumanità che dovrebbero contraddistinguerla (Alien), quanto piuttosto per il contrario, per la capacità di soffrire
patire e persino di amare a cui gli uomini sembrano aver rinunciato e che
risorgono, come sogni malinconici e disperati, nelle loro creature.
Una cosa è certa. Questo film ‑ come prima era
stato per 2001 Odissea nello spazio di
Kubrick ‑ ha definitivamente mutato l'immaginario del futuro e il
linguaggio stesso della fantascienza. Qualsiasi opera successiva ne è stata
debitrice.
GATTACA
(Gattaca. La porta dell’universo)
Regia e scenegg. di Andrew Niccol
Con E.Hawke, U.Thurman, J.Law
Usa, 1997
In
un futuro non troppo lontano, come recita la didascalia iniziale, lo sviluppo
della genetica porta a predeterminare ogni caratteristica dei nascituri,
eliminando difetti e imperfezioni. Nasce così un'inevitabile discriminazione
genetica a sfavore dei “nati per fede” o “di‑gene‑errato”, cioè di
coloro che nascono senza manipolazione. Vincent è uno di questi, e sogna fin da
bambino di raggiungere le stelle. Per poter entrare a Gattaca ‑ il centro
di addestramento di questi super‑uomini destinati allo spazio assume
l'identità di Jerome, un ragazzo geneticamente perfetto ma costretto su una
sedia a rotelle da un incidente automobilistico. Finirà anche per confrontarsi
con il fratello Anton ‑ anch'egli “perfetto” ‑ in una sfida che li
accompagna sin dalla loro infanzia...
Di fronte alle paure legate ai prodigiosi sviluppi
della genetica, il film di Niccol sceglie di offrire una prospettiva di
speranza e ottimismo, scommettendo sull'uomo e sulle sue imperfezioni.
Il titolo del film, risulta dalla composizione delle
iniziali delle quattro sostanze che combinandosi tra loro determinano la
sequenza di ogni DNA: Guanina, Adenina, Timina, Citosina. Niccol opta per la
casualità della natura contro l'illusione scientifica di una perfettibilità
genetica che tende a eliminare il difetto, ma che apre le porte a nuove forme
di discriminazione.
La fantascienza di Gattaca ricorda i temi e le atmosfere di
Blade Runner di Scott e Brazil d Terry Gilliam, altrettanti film
dove una socìetà fascista e totalitaria si scontrava con l'insopprimibile senso
di unicità e il bisogno di libertà del singolo. Si tratta, anche in Gattaca, di una civiltà che non riesce
più a distinguere la differenza, motivo
per cui a Vincent riesce abbastanza facile farsi passare per Jerome, il ragazzo
di cui prende l'identità. La faccia è ormai decisamente meno importante di una
goccia di sangue contraffatta. Un futuro freddo, ma non cupo, quello immaginato
da Niccol; disegnato sul modello degli anni '40, in cui uomini e donne eleganti
si muovono in spazi architettonicamente vasti e geometrici.
THE TRUMAN SHOW
Regia: PETER WEIR
Sceneggiatura: ANDREW NICCOL
Interpreti: J.CARREY, L.LINNEY, E.HARRIS
USA, 1998
Truman
Brubank si sente osservato. E fa bene. Perché la sua vita, sin dalla nascita, è
stata spiata, costantemente, senza un attimo di interruzione, da centinaia di
telecamere. Truman Burbank è il più grande attore involontario di soap-operas
ma esistito, probabilmente. La sua esistenza è una lunga quotidiana telenovela,
che lo ha reso il personaggio televisivo più popolare d’America. Ma il fatto
più singolare è che Truman nulla sospetta di questo massmediatico inganno.
Crede di essere un uomo qualsiasi, in una delle più qualsiasi città di
provincia, con il sole, le case colorate e i giardini ben in ordine. Ha un
lavoro, una moglie devota, molti amici e una vita tranquilla, senza sapere che
tutto questo è una colossale finzione, a beneficio di milioni di telespettatori.
Finché un giorno l’impressione di essere osservato diventa sempre più acuta...
I labili territori
dell’apparenza sono da sempre uno dei terreni preferiti da Peter Weir,
sensibile regista australiano trapiantato ad Hollywood, sempre abile
nell’ammantare di mistero e poesia gli aspri contorni della realtà. “The Truman
Show” è un film sulla finzione più assoluta, sulla trasformazione in spettacolo
della vita umana. Spettacolo con attore inconsapevole, spettacolo che getta
nell’incertezza chi vi assiste, facendolo dubitare di che cosa possa essere
definito ”vero” nelle città di Seaheaven, una sorta di parco dei divertimenti,
limite ultimo che Truman non ha mai voluto varcare per paura dell’acqua che lo
circonda. Una enorme gomma da cancellare elimina piano piano tutte le certezze,
e gli affetti più cari si rivelano frutto solamente di una accorta recitazione.
Un personaggio alla Forrest Gump, Truman Burbank, che perde l’innocenza nel
momento in cui scopre la misura esatta della falsità, del livello di artificio
che le cose più familiari possono nascondere. Guidata dalla sceneggiatura
accattivante di Andrew Niccol (il regista di ”Gattaca”), la storia si fa dramma
agrodolce, nello svelare le mille verità di Truman, alla scoperta di un mondo
che sembra ad ogni passo sempre più sconosciuto. Weir ritma il racconto con
grande delicatezza, assecondando con la macchina da presa la sorpresa nascosta
dietro ogni inquadratura. I colori caldi e decisi, il sole che caratterizza
sempre il paesaggio, contrastano con le domande sempre più pressanti che il
protagonista si pone. Un Jim Carrey eccezionale mette a frutto ilgenio comico
di “Ace Ventura” donandogli una maschera diversa, più mobile e dagli accenti
eccezionalmente tragici, lunare e surreale allo stesso tempo: un uomo che ha
visto svanire il suo passato nel tubo catodico, e d’improvviso si inventa un
presente.
Regia e scenegg. di Larry & Andy Wachowski
Con K.Reeves, L.Fishburne, C-A.Moss.
Effetti visivi di J.Gaeta
Usa, 1999
Neo,
giovane programmatore di computer, nonché hacker a tempo perso, viene
contattato e coinvolto da una banda di “terroristi cibernetici” capitanata da
Morpheus. La cosa lo mette in pericolo, perché d’ora in avanti si trova ad
avere a che fare con un gruppo di agenti speciali preposti a vigilare sul
mantenimento del segreto della realtà virtuale rappresentato da Matrix.
L’umanità, infatti, crede semplicemente di vivere nella realtà, mentre invece
il mondo è stato distrutto e l’umanità ridotta in schiavitù da una
sofisticatissima generazione di computer, che ha creato una realtà fittizia,
virtuale, generata da un’apposita interfaccia di nome Matrix. Morpheus e i suoi
sono alla ricerca dell’“eletto”, colui il quale potrebbe portarli alla
vittoria. E credono di averlo trovato in Neo.
Un film divenuto
precocemente “cult”, che rappresenta da solo una contaminazione di generi:
grafica, animazione, pittura, videoclip. Un cocktail che utilizza quale
ingrediente di base la famosa storia cinese dell’imperatore che sogna di essere
una farfalla - ma che poteva anche essere la farfalla a sognare l’imperatore -,
shakerato in stile videogame e insaporito con elementi da “Alice nel paese
delle meraviglie”, filosofie orientali un po’ pasticciate, suggestioni dalle
ambientazioni di Alien e Blade Runner, coreografie kung-fu. La messa in scena è
affidata per la quasi totalità all’ingegno agli effetti speciali. Duelli con
gli attori sospesi nel vuoto, sparatorie a riprese a 12.000 fotogrammi al
secondo, macchine da presa lanciate a velocità inaudite, al fine di comporre un
ritmo adrenalinico. Un delirio visivo che si snoda in assoluta leggerezza, se
non fosse per lo squarcio che improvvisamente si dischiude sulla “verità” di un
mondo distrutto e abbandonato nel buio. Un momento di pura vertigine che sintetizza
in un’unica visione i peggiori incubi che il cinema di fantascienza - almeno da
Blade Runner - ci aveva suggerito e fatto temere.
Perché l’impressione è che questa volta, strappare
il velo della menzogna virtuale che tiene l’umanità in uno stato di sogno,
altro non potrebbe servire che a precipitare davvero.
IL TREDICESIMO
PIANO
(The
Thirteenth Floor)
Regia e scenegg. di J.Rusnak
Con C.Bierko, A.Mueller‑Stahl, G.Mol.
Usa, 1999
Los Angeles ai nostri giorni.
Al tredicesimo piano di una non identificata azienda, si trova la porta per un
nuovo mondo. Una. serie di computer in grado di generare una realtà virtuale
abitata da simulazioni di esseri umani in grado di agire e pensare, o almeno di
illudersi di farlo, in una scenografia anni '30...
Il film è tratto dal romanzo
“Simulacron 3”, scritto nel 1964 da Daniel F.Galouye. Vero / Falso. Due
categorie che fino a poco tempo fa delineavano ed esaurivano la capacità di
osservare e cap re la realtà. Oggi questa netta divisione inizia a mostrare le
prime incrinature. Una nuova categoria si insinua tra i due opposti: il
"simulato". La capacità, grazie allo sfruttamento della tecnologia
digitale, di creare una falsa rappresentazione
del vero. Questo complesso processo
di alterazione digitale della realtà, è diventato il soggetto di diverse opere
cinematografiche (The Matrix, Dark City, e
in un certo senso anche The Truman Show),
per rendersi conto che il processo di assimilazione tra realtà e fantasia,
e la conseguente perdita di ogni punto di riferimento, è una delle maggiori
preoccupazioni dell'uomo di fine millennio.
Il tredicesimo piano è parte integrante del gruppo di film citati. Nel
film, la Los Angeles degli anni '30 è il lato virtuale della realtà, parallelo
e contiguo al mondo vero. Tutto può reggersi fino a quando la contaminazione
tra i due mondi non finisce per produrre una specie di corto circuito
paradossale; e fino a quando gli abitatori del mondo "vero" non
arrivano a sospettare di essere essi stessi una simulazione, un sogno elettronico di un mondo ulteriore, più vasto.
Un gioco di scatole cinesi che cancella
evidentemente qualsiasi certezza di un limite ultimo. Un risveglio che potrebbe
benissimo essere l'ingresso in un nuovo sogno, come il finale del film lascia
intuire, dietro gli scenari di un improbabile, armonico mondo futuro.
ALIEN 3
Regia
di David Fincher
Sceneggiatura
di D.Giler, W.Hill
Con
S.Weaver, C.S.Dutton, C.Dance
Usa,
1992
Il terzo episodio della saga
inaugurata da Ridley Scott. L’ufficiale Ripley viene raccolta ancora viva,
unica sopravvissuta del suo equipaggio,
dopo un atterraggio di fortuna su un pianeta adibito a colonia penale
dove i criminali vivono come in una comunità unita da una sorta di fanatismo
religioso apocalittico. Con la navicella è atterrato sul pianeta anche
l’alieno, ma soprattutto Ripley scoprirà di incubare nel suo stesso corpo il
nemico di sempre...
Film claustrofobico e disperato. La terra non è più nemmeno una speranza, e l’unico mondo possibile e comunque da salvare, è quest’orrenda, buia prigione, dove un’enorme fonderia brucia metalli alieni. Lo scenario ricorda un’enorme fabbrica in stato di totale abbandono, dove le tecnologie sofisticate si mescolano alla ruggine e alla sporcizia.
Fincher
(autore anche di Seven e The Game) riduce al minimo gli effetti speciali, e
parte esattamente da dove Cameron (l’autore di Alien. Scontro finale) ci aveva
lasciati, demolendo l’impianto muscolare e patriottico del secondo film. Torna
alla prima suggestione di Scott: l’idea del “contagio” facendo scolorire - come
nella realizzazione quasi monocromatica del film - qualsiasi illusione di
vittoria e di ritorno. Il luogo dove la scena si svolge è un incubo nero,
iterminabile e senza vie d’uscita. Filtra liquidi, coi quali si mimetizza la
bava dell’alieno, come le peggiori segrete del romanzo gotico. Ricorda il
ventre umido della Los Angeles di Blade Runner. È il futuro come non vorremmo,
ma come abbiamo sempre più ragione e timore di immaginare. Ripley, sola come
l’aveva voluta Scott e rasata a zero come la Giovanna d’Arco di Dreyer, forse
per la prima volta è tra “pari”, in solitudine, differenza e purezza, e
combatte la sua guerra privata e disperata con l’altra madre aliena. Nel suo
volo finale nel cuore della fornace trascina con se il piccolo alieno che sta
nascendo, stringendolo in un gesto che è contemporaneamente di imprigionamento
e di estrema protezione materna.
Ray Bradbury – Fahrenheit
451 – Gli anni della fenice
Clifford Simack – City
(Anni senza fine)
Robert Silverberg – Il
secondo viaggio
Philip Dick– La
svastica sul sole
Philip Dick – Il
cacciatore di androidi
Anthony Burgess – Un’arancia
a orologeria
Altri film:
(evidenziati in neretto
i film che a nostro parere sono di particolare interesse)
L’invasione degli
ultracorpi – Don Sigel (1965)
La decima vittima – Elio
Petri (1965)
Arancia meccanica – Stanley Kubrick (1971)
L’uomo che fuggì dal
futuro – George Lucas (1971)
2002: i sopravvissuti – Richard
Fleischer (1973)
La fuga di Logan – Michael
Anderson (1976)
Quintet – Robert
Altman (1978)
Brainstorm. Generazione elettronica – Douglas Trumbull (1981)
1997: fuga da New York – John
Carpenter (1981)
Brazil – Terry Gilliam (1985)
Essi vivono – John Carpenter (1988)
Strange Days – Kathryn Bigelow (1995)
Johnny Mnemonic – Robert
Logo (1995)
Nirvana – Gabriele
Salvatores (1997)
Il quinto elemento – Luc
Besson (1997)
Siti internet:
http://www.intercom.publinet.it/autori.htm
http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/orwell.htm
http://guide.supereva.it/letteratura_inglese_e_nordamericana/biografia.shtml
http://www.fenyce.net/letteratura.html
http://cinema.supereva.it/canali/festival/artI1969.html
http://www.dadascanner.com/index.html
http://www.delos.fantascienza.com/
http://www.fantascienza.com/cinema/ANNATE/1984.html
http://selfknowledge.com/index.shtml
http://cinema.supereva.it/canali/attualita/artI2226.html
http://www.35millimetri.com/film/
http://www.artz.it/artz3/index.htm
http://www.filmup.com/
http://www.filmsite.org/index.html
http://www.geocities.com/CapitolHill/6420/film.htm
http://uk.imdb.com/
http://lck.com/reVision/home.htm